domenica 10 giugno 2012

Luce da sud

Questa luce scolorata
     che mi scioglie di vertigine
lascia solo un letto sfatto
     sopra un cielo di fuliggine.

Se ti lasci tormentare
     dalle lacrime del vento
resti solo un po' più caldo
     sulle foglie di cemento.

Quando passi scalzo e fermo
     sopra gli occhi denutriti
piange forte questa rabbia
     dei miei piedi intorpiditi.

Basta quasi la tua bocca
     a coprirmi di rancore
e un cucchiaio di carezze
     che riluce e fa rumore.

Ridi pure, se mi senti
     il coraggio ti corteggia
è la fretta a scivolarti
     sopra gli occhi bui di pioggia.

Non lasciare che sia mia
     la tua ultima carezza.

Manca sempre qualche cosa
     e poi resta la stanchezza.

mercoledì 2 maggio 2012

Detriti

Racconto piccolo, ma che tocca dentro.
Le parole sono scelte con minuziosa premura.
I personaggi si stagliano sullo sfondo tremolante d'acqua e sembra quasi di toccarli, in quell'auto troppo stretta.

Ecco a voi Antonio Tabucchi.

Nonostante tutto.



Sembra di essere in un romanzo di Simenon, disse l’uomo, la sera di pioggia, le cittadine di provincia che abbiamo attraversato, la diga d’Olanda, questa mia pipa. A proposito, scusa, ti dà noia se fumo? Spense l’automobile e mise i fari di posizione.
                La donna lo guardò e sorrise. È tanto che fumi la pipa?, chiese.
                Dopo l’infarto, rispose l’uomo, sono vent’anni, con la pipa il fumo non si ingoia, ma dà l’illusione del profumo.
                Qual è il quadro che ti è piaciuto di più?, chiese lei, domanda da un milione di franchi.
                Beh, disse lui, intanto avrei da ridire su tutta la mostra, a me queste megamostre non piacciono, mi danno un senso di smarrimento, è come fare un’indigestione, forse un’indigestione di caviale, ma pur sempre un’indigestione.
                Allora perché sei venuto?, chiese lei.
                Oh, fece lui, è semplice, per non mancare a un appuntamento.
                Pensavi che ci saremmo incontrati?, chiese lei con stupore.
                L’uomo sorrise ancora. Certo che no, disse, chi se lo poteva immaginare, fra tutta quella folla, dopo tutto questo tempo. Il mio era solo un appuntamento platonico, un omaggio al tempo andato, una fedeltà a un pittore che avevamo amato insieme. Ti ricordi Arles?
                Era il cinquantotto, disse lei.
                No, ribatté lui con convinzione, era il cinquantanove.
                No, disse lei con dolcezza, era il cinquantotto, nel cinquantanove siamo stati a Saint-Rémy, a visitare l’asilo psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole, e poi Auvers-sur-Oise, dove lui morì, a Arles ci siamo stati nel cinquantotto, era settembre.
                L’uomo si grattò la testa e si sistemò il nodo della cravatta.
                Nel mio ricordo avevo invertito gli anni, disse, ma come al solito hai ragione tu.
                È che io ho tenuto un diario, disse lei, tutto qui. Comunque non hai risposto alla mia domanda, qual è il quadro che ti è piaciuto di più?
                Avrei dovuto tenerlo anch’io, disse lui senza rispondere alla domanda, invece tutto quel periodo è affidato solo alla memoria, e la memoria è piena di buchi, si sa, è fatta di detriti.
                Anche i diari sono pieni di buchi, disse lei, cosa credi?, a volte ho tentato di rileggere il mio diario per riafferrare quei giorni ed è pieno di buchi, sono solo lacerti, mi pare addirittura che lo abbia scritto un’altra persona, voglio dire la stessa persona che è anche un’altra persona.
                Io ho le foto, disse lui. E poi continuò: scusa, ma siamo in tema, metto una vecchia canzone di Charles Trenet, sembra fatta apposta. Pigiò il tasto del mangianastri e inserì una cassetta. Poi riaccese la pipa che si era spenta e aprì una fessura nel finestrino perché il fumo potesse uscire. Ora stava piovendo a dirotto. Acqua da tutte le parti, disse, acqua dal cielo, acqua a destra, acqua a sinistra, siamo in mezzo all’acqua. Une photo, vieille photo de ma jeunesse, canticchiò accompagnando le parole di Trenet.
                Le tue foto hanno fatto il giro del mondo, disse lei, so che New York ti ha fatto un grande omaggio, sei il fotografo più celebrato del momento.
                Diciamo che lo sono stato, disse lui, ora è il momento di cedere il posto ai giovani.
                E così hai le foto di quei tempi?
                Tutte, tutta la nostra Provenza. Potrei farne una copia e mandartele.
                Non so, disse lei, forse è meglio di no, forse preferisco guardare con l’occhio della memoria. Però mi piacerebbe averne una di te, del tuo viso di allora.
                Ho un autoritratto che feci allo specchio dell’albergo di Arles, sussurrò lui, ti ricordi?, ti ricordi che albergo era?
                Il nome non lo ricordo, ma era in rue Lépic, era senz’altro in rue Lépic.
                Come fai a ricordarti il nome della strada?
                Perché in quella stessa strada lui aveva abitato e dipinto, disse lei, aveva un atelier sull’angolo di rue Lépic e noi ci fermammo in un alberghetto di quella stessa via perché ci parve un buon auspicio.
                Fu di buon auspicio?
                Lei fece finta di non aver capito.
                Fu di buon auspicio?, ripeté lui a voce più alta.
                Sì, certo, disse lei, è stata una cosa bellissima, solo che le lancette ingoiano tutto in un attimo, è terribile, non ti pare?
                Terribile cosa?, disse lui.
                Così, disse lei. Uno attraversa la vita quasi senza accorgersene, e poi ci ripensa dopo, quando la vita è passata.
                Lui tacque un attimo e poi disse: sono indeciso fra L’eglise d’Auvers-sur-Oise e La chambre de Vincent à Arles, quella del 1888, ma forse direi il secondo.
                Ah, disse lei dopo un momento di riflessione, hai finalmente risposto alla mia domanda.
                E tu, chiese lui, qual è il quadro che ti è piaciuto di più?
                La sieste, disse lei, non so se l’hai presente, due contadini, un uomo e una donna, che riposano su dei covoni di grano. È il meriggio, è tutto quieto, lontano si vede un cielo azzurrissimo, loro sono circondati dal giallo dorato delle messi, sembra di sentire il suono delle cicale.
                Perché proprio La sieste?, chiese lui.
                Beh, disse lei, per motivi sentimentali, perché anche noi una volta abbiamo fatto una siesta, non so se ti ricordi, è stato vicino al ponte di Langlois, anzi, dove anticamente c’era il ponte di Langlois, comunque in quella zona lì, passavamo in macchina e decidemmo di fare una merenda, io avevo comprato pane e formaggio, e poi ci addormentammo su un mucchio di paglia.
                 Io avrei detto i Tournesols, disse lui.
                Come?, chiese lei.
                No, aggiunse lui, volevo dire che ero convinto che tu avresti scelto i Tournesols.
                La pioggia era aumentata di intensità. Ora, a causa del vento, formava dei vortici che mulinellavano intorno ai fasci di luce dei fari.
                Sai a cosa mi fa pensare questa pioggia?, disse lei, al tempo.
                In che senso?, chiese lui.
                Non saprei, disse lei.
                A proposito di tempo, disse lui, che ora abbiamo fatto?
                Lei guardò l’orologio. È quasi mezzanotte, disse.
                Forse è meglio se rientriamo, disse lui, devo coricarmi presto, me lo ha ordinato il medico. Accese il motore e cominciò a fare manovra per tornare indietro. Il mare era calmo, tranquillo, sembrava che quella pioggia lo pacificasse.
                Non ero mai stata su una diga d’Olanda, disse lei, è una sensazione strana.
                Dove vivi?, chiese lui.
                A Parigi, disse lei, e tu?
                A Ginevra, rispose lui, è per via delle tasse.
                Ti ricordi L’Anguille?, chiese lei.
                Certo, disse lui, era un ristorante, ma non era a Arles, dov’era e com’era?, aiutami a ricordarlo meglio.
                Era vicino a Sète, disse lei, il padrone aveva lavorato come cuoco di bordo sui transatlantici di lusso, la moglie era alcolizzata, in quel ristorante non ci andava mai nessuno eppure si mangiava benissimo, lo scoprimmo per caso, tu adoravi le grenouilles à la provençale.
                Pranziamo insieme domani?, chiese lui.
                Domattina parto, disse lei, sono venuta per vedere la mostra.
                Quante cose, disse lui.
                Quante cose cosa?, disse lei.
                Quante cose tutto, disse lui.
                Lei starnutì e chiese se poteva accendere il riscaldamento.

lunedì 23 aprile 2012

Tre libri

Ho letto un libro che sembra uscito direttamente dalla mia pelle.

S'intitola Il libraio, e subito pensavo ad una di quelle tante storie pseudo-nostalgiche, con personaggi stereotipati, il "piacere della lettura" trattato con superficialità, con una scrittura piatta e paradossalmente tronfia e demodé.
No, questo non è per niente così.

L'autore si chiama Régis de Sà Moreira, ed è uno di quelli che mi piacerebbe incontrare.
Ha un modo di mettere le parole che le rende subito vicine, piccole e vive.
Nutre la storia di dettagli deliziosi, mescola i pensieri con le vibrazioni e lo fa senza affaticare.

Questo libro vi accompagni come un abbraccio.
Vi tenga al caldo delle sue pagine, e vi regali quel po' di conforto di cui abbiamo sempre - infinitamente - bisogno.



                Il libraio detestava la volgarità ma non aveva nulla contro la grossolanità, anche se non vi faceva mai ricorso.
                Non mandava nemmeno a quel paese i clienti maleducati. Uno di loro si avvicinò al banco e domandò maleducatamente al libraio quali fossero i tre libri da portare su un’isola deserta.
                Il libraio lo guardò stupito e gli rispose che non era sicuro di sapere di quali libri stesse parlando.
                Il cliente s’innervosì, gli disse che tutti gli parlavano di quei tre “fottutissimi libri” da portare su un’isola deserta, e gli fece capire che, se non lo sapeva, non ci faceva nulla (“un cazzo” furono le sue parole) in una libreria.
                «È una scelta molto personale...» disse il libraio.
                «Personale una sega!» disse il cliente.
                Il libraio sorrise per incoraggiarlo.
                «Che cazzo ci vado a fare in quella fottutissima isola senza quei tre libri di merda?»
                «Ah...» disse il libraio «temo proprio che qui non li troverà.»
                «Che cazzata!» concluse il cliente prima di girare i tacchi e partire senza nemmeno dire arrivederci.
                Il libraio lo lasciò andare senza fare più caso a quel piccolo incidente, ma mentre si preparava una tisana alle ortiche, iniziò a porsi qualche domanda.
                Quali erano i tre libri da portare su un’isola deserta?
                O almeno, quali erano i tre libri che lui, il libraio, avrebbe portato su un’isola deserta?
                Iniziò ad angosciarsi.
                Girò in tondo sulla scala a chiocciola sino a ritrovarsi giù e iniziò a passare in rassegna tutti i libri.
                “Tre libri” pensò il libraio.
                Scorse i ripiani, si fermò al primo scaffale, prese un libro, continuò, ne prese un altro, aggrottò le sopracciglia, continuò, ne prese un terzo, si disse che era solo una prima cernita e che poi avrebbe fatto un’ulteriore selezione, continuò, prese altri libri...

                Una mezz’ora dopo, il libraio si trovò davanti a tutti i libri che aveva impilato con lo scopo di tenerne solo tre e sospirò.
                Non aveva finito nemmeno la prima selezione che il numero di libri presi dagli scaffali superava già il numero di quelli che vi restavano.
                Prese il coraggio a due mani e fece un nuovo tentativo.
                «Tre libri,» mugugnò il libraio, «tre libri... Perché non due? O quattro? O zero... o mille? Soltanto tre libri.»
                Tre, ecco. E nessuno sapeva perché.
                Il libraio maledisse la persona che aveva avuto quell’idea. Il primo ad aver posto quella domanda. Perché dovevano pur venire da qualche parte, quelle frasi, tutte quelle idee! Erano certamente partite da un caso particolare. Se il libraio avesse potuto avere in quel momento nella sua libreria l’incosciente che aveva messo a punto il problema dei tre libri, gli avrebbe spiegato il suo modo di vedere le cose. E poi, soprattutto, gli avrebbe chiesto quale fosse la sua risposta. Si sarebbe messo in ginocchio davanti all’uomo o alla donna e avrebbe scongiurato lui o lei di dargli i titoli dei tre libri.
                Poi il libraio iniziò a portare rancore verso il cliente maleducato che gli aveva messo in testa quell’idea. Non poteva sceglierli da solo, i tre libri? Del resto, era qualcosa di molto personale.
                Il libraio ebbe il sospetto che il cliente maleducato si fosse ritrovato in quella stessa imbarazzante situazione e si fosse affidato a lui per questo motivo. Del resto, il libraio era il libraio, ed era del tutto normale rivolgersi a lui per la scelta dei libri.
                Ma quali libri?
                «Tre libri...» ripeté il libraio.
                Non due, non quattro, non zero, non mille.
                Il libraio continuò a pensare ai tre libri, a quei tre “cazzo di libri”.
                E ci pensò così intensamente che credette di essere sul punto di partire per un’isola deserta.

                Ma la scelta divenne ancora più terribile.
                Come se ne andasse della sua stessa vita.
                Il libraio gridò.
                Un cliente sussultò a gridò anche lui.
                «Mi scusi» disse il libraio.
                Il cliente lo guardò stupito e preferì andarsene.
                Il libraio si calmò.
                Si ricordò che non stava per partire per un’isola deserta, che non doveva scegliere i tre libri e che non poteva farsi carico di tutti i problemi del mondo.
                “E poi,” si disse il libraio pensando un’ultima volta al cliente maleducato, “troverà di sicuro una libreria, sull’isola.”

                Alla fine il libraio si sedette su una pila di libri e ne prese uno a caso da una delle altre pile.
                Iniziò a leggere, iniziò a sorridere, e i tre libri, come tre ombre nell’animo del libraio, svanirono.
                Li dimenticò completamente e continuò a leggere.

martedì 3 aprile 2012

Andar(sen)e


Ci sono dei momenti nella vita in cui ti capita qualcosa.
Poi apri il libro che stai leggendo, e te la ritrovi lì, stampata, davanti.
Fa un po' i brividi, a pensarci, ma con questo pezzo mi è successo proprio così.
Dal libro Le vie dei canti, Bruce Chatwin cerca il modo di raccontare quello che spinge l'uomo a lasciarsi qualcosa alle spalle per cercare un altro qualcosa che non sa ancora.

Qui sotto ci sono due uomini.
Non si conoscono, ma non è importante.

Guardate come tutto - sempre - si muove.



                Chiusi il libro di scatto. Le poltrone di pelle della London Library mi avevano fatto venire un gran sonno. L’uomo seduto accanto a me stava russando con una rivista letteraria distesa sullo stomaco. Al diavolo le migrazioni! mi dissi. Posai la pila di libri sul tavolo. Avevo una gran fame.
                Era dicembre, fuori faceva freddo e c’era il sole. Speravo di scroccare il pranzo a un amico. Stavo camminando in St. James Street quando, all’altezza del White’s Club, scese da un taxi un uomo con un capotto dal colletto di velluto. Con gesto magnanimo diede due banconote al taxista e si diresse verso gli scalini. Aveva folti capelli grigi e un reticolo di capillari rotti, come se sopra le sue guance fosse stesa una calza di nailon rossa. Lo avevo visto in fotografia: era un duca.
                Nello stesso istante un altro uomo, con un pastrano da reduce, senza calze e con le scarpe legate con lo spago, arrivò in fretta con un sorriso accattivante.
                «Ehm... Scusi se la disturbo, Sir» disse con spiccato accento irlandese. «Ma forse lei potrebbe...».
                Il duca si affrettò a entrare.
                Guardai il barbone, e lui mi guardò con aria d’intesa. Sul suo cuoio capelluto chiazzato galleggiavano ciuffi di capelli rossicci. Aveva occhi lacrimosi, imploranti fiducia, leggermente strabici. Doveva aver passato i sessant’anni da un pezzo. Dal mio aspetto giudicò che non valesse la pena accampare delle pretese sul mio portafogli.
                «Ho un’idea» gli dissi.
                «Dica, eccellenza».
                «Lei viaggia, vero?».
                «In tutto il mondo, eccellenza».
                «Be’, se ha voglia di raccontarmi i suoi viaggi, le offro con piacere il pranzo».
                «E io accetto volentieri».
                Andammo dietro l’angolo, in un ristorante italiano di Jermyn Street affollato ed economico. C’era un tavolino libero.
                Non lo invitai a togliersi il pastrano per paura di quello che c’era sotto. Due eleganti segretarie si scostarono da noi, rimboccandosi la gonna sotto le gambe come se si aspettassero un’invasione di pulci.
                «Che cosa prende?» domandai.
                «Ehm... lei cosa prende?»
                «Su, » dissi «ordini quello che vuole».
                Tenendo il menu capovolto, lo esaminò con la disinvoltura di un cliente abituale che si sente in dovere di controllare il plat du jour.
                «Bistecca con patatine!» esclamò.
                La cameriera smise di masticare il fondo della matita e indirizzò alle segretarie un’occhiata torturata.
                «Filetto o lombata?» domandò.
                «Fa lo stesso» rispose lui.
                «Due lombate» dissi io. «Una normale, una un po’ al sangue».
                Lui spense la sete con una birra, ma il pensiero del cibo gli ipnotizzava la mente; agli angoli della bocca gli comparvero delle goccioline di saliva. Sapevo che i barboni hanno metodi sistematici di frugar la spazzatura e ritornano spesso a un gruppo preferito di pattumiere. Come si regolava, gli domandai, con i club di Londra?
                Ci pensò su un momento e poi disse che il meglio era sempre l’Athenaeum. Tra i suoi membri c’erano ancora dei religiosi.
                «» rimuginò. «Di solito si riesce a spillare uno scellino a un Vescovo».
                Subito dopo, ai vecchi tempi, veniva il Traveller’s. Quei signori, come lui, avevano visto il mondo.
                «Un incontro di anime, si potrebbe dire» continuò. «Ma adesso... no, no».
                Il Traveller’s non era più quello di un tempo. Era subentrata un’altra categoria di persone.
                «Pubblicitari» disse cupamente. «Molto taccagni, mi creda».
                Aggiunse che il Brooks’s, il Boodle’s e il White’s erano ormai tutti della stessa risma. Ad alto rischio! O grande generosità... o niente!
                L’arrivo  della bistecca inibì completamente la sua capacità di conversazione. La attaccò con sorda ferocia, sollevò il piatto alla bocca, leccò il sugo e poi, ricordandosi dov’era, lo posò di nuovo sul tavolo.
                «Ne vuole un’altra?» domandai.
                «Non dico di no, eccellenza» rispose. «Molto cortese da parte sua».
                Ordinai una seconda bistecca, e lui si lanciò nella storia della sua vita. Ne valeva la pena. Il racconto, quando prese forma, era esattamente ciò che volevo sentire: il piccolo podere nella contea di Galway, la morte della madre, Liverpool, l’Atlantico, i mattatoi di Chicago, l’Australia, la Depressione, le isole dei mari del sud...
                «Oooh! Quello è il posto per lei, ragazzo mio! Tahiti! Vahine!».
                Si passò la lingua sul labbro inferiore.
                «Vahine!» ripeté. «Così chiamano le donne laggiù... Oooh! Che meraviglia! L’ho fatto in piedi sotto una cascata!».
                Le segretarie chiesero il conto e uscirono. Alzai gli occhi e vidi le mascelle squadrate del capo cameriere e il suo sguardo ostile. Temetti che ci buttassero fuori.
                «C’è un’altra cosa che vorrei sapere».
                «Dica, eccellenza, sono tutt’orecchi».
                «Ritornerebbe in Irlanda?».
                «No». Chiuse gli occhi. «No, non ne avrei voglia. Troppi brutti ricordi».
                «Ma c’è un luogo che considera “casa sua”?».
                «Certo che sì». Rovesciò la testa all’indietro e rise. «La Promenade des Anglais, a Nizza. Mai sentita ?».
                «» risposi.
                Una notte d’estate, sulla Promenade, aveva attaccato discorso con un facondo signore francese. Per un’ora avevano parlato, in inglese, della situazione mondiale. Poi il signore aveva estratto dal portafoglio un biglietto da 10.000 franchi - «Vecchi franchi, sa!» -, e dopo avergli dato il suo biglietto da visita gli aveva augurato un piacevole soggiorno.
                «Porca miseria!» gridò. «Era il capo della polizia... a Nizza!».
                Adesso il ristorante era meno affollato. Gli ordinai una doppia porzione di torta di mele. Non volle il caffè; non lo digeriva, disse. Poi ruttò e io pagai.
                «Grazie, Sir» disse con l’aria di un intervistato che ha una sfilza di impegni pomeridiani. «Spero di esserle stato utile».
                «Altroché» lo ringraziai.
                Si alzò in piedi, ma si sedette di nuovo e mi fissò con aria intenta. Dopo aver parlato delle circostanze esterne della sua vita, non voleva andarsene senza un commento sulle sue motivazioni interiori.
                Allora, lentamente e con grande serietà, disse:
                «È come se ti trascinasse la corrente. Io sono come la sterna artica, eccellenza. È un uccello, un bell’uccello bianco che dal Polo Nord vola al Polo Sud e poi torna indietro».

domenica 11 marzo 2012

The bluebird

Non c'è niente da aggiungere.
Ascoltate Bukowski, lui sa come dirlo.



nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani dentro, non voglio
che nessuno ti
veda.

nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io gli verso addosso whisky e aspiro
il fumo delle sigarette
e le puttane e i baristi
e i commessi del droghiere
non sanno che
lì dentro
c'è lui

nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io con lui sono inflessibile,
gli dico:
rimani giù, mi vuoi fare andar fuori
di testa?
vuoi mandare all'aria tutto il mio
lavoro?
vuoi far saltare le vendite dei miei libri in
Europa?

nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io sono troppo furbo, lo lascio uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
gli dico: lo so che ci sei,
non essere
triste

poi lo rimetto a posto,
ma lui lì dentro un pochino
canta, mica l'ho fatto davvero
morire,
dormiamo insieme
così col nostro
patto segreto
ed è così grazioso da
far piangere
un uomo, ma io non
piango, e
voi?




martedì 6 marzo 2012

Discriminazione, enoizanimircsid

Perdonatemi se sono monotematica, ma questo libro (Racconti di vento e di mare) mi sta regalando una dose di bellezza senza precedenti.
Oggi vi metto questo, s'intitola Nella baia di Rio, scritto da Edmondo De Amicis.
E' una storia che mi ha messo i brividi.
Ho visto quell'uomo malato, ho sentito l'imbarazzo e l'inadeguatezza dei marinai.
E un grande scrittore non deve far altro che questo.
Emozionare, senza che il lettore si accorga della fatica e del lavoro che ci stanno sotto.

Questo è per tutti i migranti, e per tutti gli emarginati che lo sanno.

Eccolo qui, ancora caldo.



                Mentre, tutti brillanti della gioia del ritorno, stavamo per scendere nella barca a vapore che ci doveva portare al piroscafo, si avvicinò alla comitiva un contadino d’una cinquantina d’anni, alto e pallido, che camminava a fatica, e che aveva un involto di panni sotto il braccio. Era un emigrato lombardo; uno di quei molti disgraziati che i medici dei bastimenti rimandano indietro per non avere un morto a bordo durante la traversata dell’Oceano: era malato grave e l’avevano rimandato anche perché, essendovi a Rio Janeiro la febbre gialla, s’usava più rigore del solito.
                Domandò del comandante, ch’era fra noi: gliel’accennammo; gli si avvicinò col cappello in mano. Aveva gli occhi infossati, uno di quei visi di contadini risentiti e fieri, che fanno più compassione degli altri, quando si vedon supplichevoli, perché si capisce quanto dovettero e debbon soffrire per mutarsi in quella maniera. Egli domandava per grazia di essere ricevuto a bordo. Veniva dall’interno del Brasile, era sfinito da un viaggio lunghissimo e penoso, voleva ritornare in patria; e non lo diceva, ma si capiva che voleva partire ad ogni costo quel giorno, perché sentiva che i suoi giorni eran contati.
                Il comandante gli rispose di no.
                Il contadino si percosse la fronte con la mano.
                Poi cominciò a pregare con voce tremante, parlando rapidamente.
                - Mi lasci partire, signor comandante, mi lasci partire. Mi metteranno dove vogliono. Mi chiudano anche. Paghi el doppi. Quando dico che mi chiudano! Mi gettino in mare se vedranno che va male. Ho bisogno di partire. Ci ho la mia famiglia laggiù che m’aspetta; i piscinitt! El doppi paghi, el doppi. Me raccomandi per l’amor di Dio -. Poi con un’esplosione della voce: - Ch’el disa minga de no! Ch’el disa minga de no!
                Il comandante scrollò le spalle, con rammarico, ma risolutamente, e saltò nella barca.
                Allora il contadino s’attaccò a un altro della brigata, con voce affannosa, col viso e l’accento di un uomo atterrito.
                - Me raccomandi a lù, scior. Parli lei al comandante. Ci ho la mia famiglia. Faccia questa opera di carità. Non sto mica tanto male. Dica una parola. Mi raccomandi, la preghi che non ‘le me abbandona per amore di Dio, che ho bisogno di tornare al mio paese, ghe disi per l’amor di Dio!
                Il pregato gli disse qualche parola di conforto, che si rassegnasse, che era impossibile, e saltò nella barca egli pure.
                Il contadino saltò dietro a lui, e s’attaccò al console, pigliandolo per i panni, affondandolo di parole sconnesse, che accennavano alla sua vita, ai suoi patimenti. Era nel Brasile da quattro anni, non ci aveva parenti, stava male da un pezzo. Voleva andare a chiudere gli occhi nel suo paese, in mezzo ai suoi. Perdere la partenza di quel giorno, voleva dire la morte in terra straniera, morir solo, abbandonato, disperato. E parlava, pregava, con voce supplichevole, facendo degli atti interrogando ora l’uno ora l’altro con uno sguardo che straziava l’anima.
                Tutti si rivolsero al comandante. Era proprio costretto a respingerlo? Non era possibile fare un’eccezione?
                Quel rude uomo di mare dovette raccogliere la voce per rispondere.
                - No, - disse con uno sforzo, e voltò il viso da una parte. Il contadino fu risospinto da un marinaio sopra la scaletta d’imbarco e la barca cominciò a muoversi. Di là continuò a pregare, parlando precipitosamente, battendosi la mano sul petto, come per provare che era ancora forte, e ripetendo: - Moeuri minga! Moeuri minga! Mi lascino partire per l’amor di Dio! Ghe giuri che moeuri minga! - Ma nessuno di noi osava più guardarlo. La barca s’allontanava. Udimmo ancora una volta quelle sconsolate parole, lanciate come un grido di angoscia e di rabbia: - Moeuri minga! - e poi non udimmo più nulla. Tutti tacevano, rattristati da quella scena, e guardavano intorno. La barca guizzava rapidissima sulle acque chiare, e la baia meravigliosa di Rio Janeiro ci si svolgeva davanti: quegli alti picchi dalle forme di montagne lunari, quei monti popolati di regine e d’imperatori della vegetazione, quei boschi scapigliati, quelle rocce aeree, quei seni inghirlandati di giardini, quelle isole incoronate di palme, tutto quell’anfiteatro immenso, disordinato, strano, così grande che la fantasia vi si perde, così bello che mette quasi tristezza. Ci parve d’arrivar troppo presto al piroscafo, che già fumava, e appena saliti ci mettemmo al parapetto, in mezzo agli altri mille passeggeri, a riguardare la baia «l’arco trionfale dell’America» che resta nella mente d’ogni viaggiatore come una visione di paradiso. Alcuni amici di Rio Janeiro erano rimasti sotto nella barca a vapore, che aveva a prua la bandiera italiana. Rimanemmo là non so quanto tempo. Il sole tramontava, il cielo era tutto rosato, la baia rosata, le grandi rocce coniche parevan di corallo, sull’orizzonte dell’oceano si allungava una striscia di nuvole purpuree. E cominciava a scoppiettare allegra la conversazione fra noi e gli amici di sotto, quando una voce dolorosa, - sinistra, - lacerante, - quella voce, - ci arrivò improvvisamente all’orecchio.
                - Mi lascino partire! Ci ho la famiglia! Paghi el doppi. Moeuri minga! I preghi per l’amor di Dio.
                Appena partiti noi, quegli s’era gettato nella barchetta di un negro, che l’aveva portato là in men d’un’ora, facendo forza per quattro.
                Il comandante, dall’alto del ponte di comando, gli rispose con un cenno del capo: - È impossibile.
                Quegli, intanto s’era spinto innanzi con la sua in mezzo alle altre barche, e, afferratosi alla catena della scala reale, dove un marinaio gl’impediva il passo, continuava a pregare affannosamente, ora guardando in su verso il capitano e verso di noi, ora verso gli amici della barca a vapore, la cui bandiera gli pendeva sopra una spalla; e giungeva le mani, abbracciava le gambe al marinaio, baciava la bandiera, accennava il cielo, spandeva un torrente di parole, quasi fuori di sé: - Il mio paese, la mia famiglia, i me piscinitt, per pietà, moeuri minga, - con la voce roca, coi lamenti d’un bimbo, con lo sguardo d’un moribondo, coi gesti d’un pazzo...
             Dal ponte di comando tuonò un grido: - Su la scala!
Le catene cigolarono, la scala s’alzò; il disgraziato, respinto dal marinaio, ricadde seduto in mezzo alla barca.
E diede in una risata più dolorosa e più lugubre del più disperato scoppio di pianto.
Poco dopo si udì il fischio della partenza.
Intanto, dal parapetto della terza classe, gli gridavano: - Coraggio, buon uomo, partirete quando starete meglio. - C’è un altro vapore fra quindici giorni.
E qualche voce scellerata gli diceva: - Purgati! Ripassa domattina!
Ma egli, rifattosi cupo, pareva che non capisse più nulla, e guardava gli uni e gli altri con grande stupore. Il bastimento si mosse.
Allora si alzò in piedi con impeto, e tese il pugno verso il ponte, in atto di scagliare un’orrenda maledizione.
Poi ricadde d’un colpo nella barca, col viso nelle mani, e ruppe in un singhiozzo violento, che parve una risata...
Era già lontano da noi e lo vedevamo ancora che scuoteva le spalle con un movimento convulso, vedevamo ancora col cuore stretto, là in mezzo alla baia, quell’immenso dolore senza conforto, a cui sorrideva tutto intorno quella immensa bellezza senza pietà. Dopo cinque minuti egli non era più che un punto nero in mezzo al mare color di rosa...


martedì 31 gennaio 2012

Divagazioni

Appoggio qui un meraviglioso esempio di prosa poetica.
L'autore è Stéphane Mallarmé e il pezzettino s'intitola Il fenomeno futuro.
Mi sono imbattuta in Mallarmé, e si dovrebbe dire forse che mi sono scontrata.
Le sue poesie mi respingono per la loro estrema chiusura, mi impongono un disagio d'inadeguatezza, ma allo stesso tempo mi colorano gli occhi con immagini che difficilmente dimenticherò.

E' una strana creatura.

Le prose, invece, sono diverse.
Hanno tutto il potenziale immaginativo, ma si lasciano alle spalle l'ermetismo emarginante.
Ed è per questo che ho deciso di condividere con voi questo frammento.
Leggetelo prima senza pensare.
Scorrete tra le parole e ascoltatene il suono, la cadenza, i silenzi.
Poi leggetelo per capire.
Solo alla fine, chiudete gli occhi.



Un cielo pallido, sul mondo che finisce di decrepitezza, sta forse per sparire con le nubi: i brandelli della porpora consunta dei tramonti stingono in un fiume dormiente all’orizzonte sommerso di raggi e d’acqua. Gli alberi si annoiano e, sotto il loro fogliame sbiancato (più dalla polvere del tempo che dei sentieri), cresce la casa di tela del Presentatore di cose Passate: infiniti lampioni attendono il crepuscolo e ravvivano i volti di un’infelice folla, vinta dalla malattia immortale e dal peccato dei secoli, di uomini accanto alle loro gracili complici incinte dei frutti miserabili con i quali perirà la terra. Nel silenzio inquieto di tutti gli occhi supplicanti laggiù il sole che, nell’acqua, affonda con la disperazione di un grido, ecco il semplice imbonimento: «Nessuna insegna vi offre lo spettacolo dell’interno, ché non esiste oggi un pittore capace di darne un’ombra triste. Io porto, viva (e preservata attraverso gli anni da una scienza sovrana) una Donna d’altri tempi. Una follia, originaria e ingenua, un’estasi d’oro, un non so che! da lei chiamata chioma, scende con la grazia delle stoffe attorno a un viso che rischiara la nudità sanguigna delle labbra. Al posto dell’abito vano ella ha un corpo; e gli occhi, simili alle pietre rare, non valgono lo sguardo che scaturisce dalla sua carne felice: seni alti come se fossero pieni di un latte eterno, la punta verso il cielo, le gambe lisce che conservano il sale del mare primigenio». Ricordando le loro povere spose, calve, malsane e piene d’orrore, i mariti si affollano: anch’esse per curiosità, malinconiche, vogliono vedere.
Quando tutti avranno contemplato la nobile creatura, vestigia di qualche epoca già maledetta, gli uni indifferenti, infatti non avranno avuto la forza di capire, ma altri straziati e la palpebra umida di lacrime rassegnate si guarderanno; mentre i poeti di questi tempi, sentendo riaccendersi i loro occhi spenti, si incammineranno verso la loro lampada, il cervello ebbro per un istante di una gloria confusa, assillati dal Ritmo e nell’oblio di esistere in un’epoca che sopravvive alla bellezza.


mercoledì 25 gennaio 2012

Il mare più da vicino

Lo aveva scritto anche Maugham, in La luna e sei soldi: ci sono persone che vivono senza farsi domande. Portano avanti quello che hanno costruito e non alzano gli occhi.
Poi un giorno succede qualcosa. Partono.
E il posto in cui arrivano gli risveglia dentro un qualcosa che li incendia di passione, vedono il colore e improvvisamente capiscono.
Un'epifania li risveglia dal torpore e il luogo che hanno scoperto diventa salvezza e irrinunciabile desiderio.
Questo pezzetto di Camus racconta qualcosa di simile.
Ci sono dentro nostalgia e speranza.
Ma soprattutto
un uomo e il suo mare.


 
Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile. Da allora aspetto. Aspetto le navi del ritorno, la casa delle acque, il giorno limpido. Paziento, cerco con tutte le forze di essere gentile. Mi si deve passare per belle strade dotte, ammiro i paesaggi, applaudo come tutti, porgo la mano, non sono io che parlo. Mi lodano, sto un po’ soprappensiero, mi offendono, mi stupisco un po’. Poi dimentico e sorrido a chi mi oltraggia, o saluto troppo cortesemente chi amo. Che posso farci se ho memoria per una sola immagine? Finalmente mi ingiungono  di dire chi sono. «Niente ancora, niente...»
                Ai funerali supero me stesso. Eccello veramente. Cammino a passo lento in periferie fiorite di ferri vecchi, m’inoltro in larghi viali costeggiati da alberi di cemento che conducono a dei buchi di terra fredda. Là, sotto la fascia del cielo appena rossa, guardo degli arzilli individui inumare i miei amici a tre metri di profondità. E se getto il fiore che una mano terrosa allora mi tende, non sbaglio mai la fossa. Ho la pietà precisa, l’emozione esatta, la nuca opportunamente inclinata. La giustezza delle mie parole viene ammirata. Ma non ho merito: aspetto.
                Aspetto a lungo. A volte faccio un passo falso, perdo la mano, la buona riuscita mi sfugge. Non importa, allora sono solo. Di notte mi sveglio e, mezzo addormentato, mi par di sentire un rumore d’onde, il respiro delle acque. Quando mi sveglio del tutto, riconosco il vento tra le foglie e l’infelice rumore della città deserta. In seguito, tutta la mia arte non mi è di troppo per nascondere l’affanno o vestirlo alla moda.
                Altre volte ne ricevo aiuto. Certi giorni, a New York, perduto in fondo a quei pozzi di pietra e di acciaio dove errano milioni di uomini, correvo da uno all’altro, senza vederne la fine, sfinito, fino a che non fossi più sostenuto che dalla massa umana che cercava un’uscita. Soffocavo, stavo per gridare dal panico. Ma ogni volta un richiamo lontano di un rimorchiatore veniva a ricordarmi che quella città, cisterna asciutta, era un’isola, e che all’estremo della Battery mi aspettava l’acqua del mio battesimo, nera e putrida, coperta di sugheri vuoti.
                Così io che non possiedo nulla, che ho donato la mia fortuna, che sto accampato vicino a tutte le mie case, sono tuttavia soddisfatto quando voglio, la disperazione non mi conosce. Non c’è patria per il disperato e io so che il mare mi precede e mi segue, ho una follia sempre pronta. Coloro che si amano e sono separati possono vivere nel dolore, ma non è disperazione: essi sanno che l’amore esiste. Ecco perché io soffro dell’esilio con occhi asciutti. Aspetto ancora.
Verrà un giorno finalmente...

sabato 7 gennaio 2012

Prosa di vacanze

Ammaliata e avvolta da questa prosa, sfumo i miei pensieri con le sue parole.
Confondo i ragionamenti mescolandoli al ritmo e ai respiri dell'onda, e non serve aprire gli occhi per vedere.
Pessoa sa intrecciare i pensieri sulla penna, e in questa Prosa di vacanze fa riecheggiare nel silenzio il turbinare indistinto della vita che passa.
A voi.


                La piccola spiaggia che formava una baia piccolissima, esclusa dal mondo da due promontori in miniatura, era, in quella vacanza di tre giorni, il mio rifugio da me stesso. Si scendeva alla spiaggia attraverso una scalinata tozza che cominciava con degli scalini di legno e a mezzo aveva dei gradini ritagliati nella roccia, con un corrimano di ferro arrugginito. E ogni volta che scendevo la scalinata soprattutto dai gradini di pietra ai piedi [?] fino in fondo, uscivo dalla mia stessa esistenza, e mi trovavo.
                Affermano gli occultisti, o alcuni di essi, che esistono momenti supremi dell’anima in cui essa ricorda, attraverso l’emozione o attraverso parte della memoria, un momento o un aspetto o un’ombra di un’anteriore incarnazione. E in quei momenti, tornando a un tempo che è più vicino all’origine e all’inizio delle cose e del suo presente, essa prova in qualche modo un’infanzia e una liberazione.
                Si sarebbe detto che nello scendere quella gradinata, ora fuori uso, e nell’entrare lentamente nella piccola spiaggia sempre deserta, io utilizzavo un procedimento magico per trovarmi più vicino alla possibile monade che sono. Alcuni modi e aspetti della mia vita quotidiana (rappresentati del mio essere costante da desideri, idiosincrasie, preoccupazioni), si allontanavano da me come i fuggiaschi sfuggono la ronda, si mimetizzavano nelle ombre fino a che non si capiva cos’erano; e io raggiungevo uno stato di distanza intima nella quale diventava difficile per me ricordarmi di ieri o riconoscere come mio l’essere che è vivo in me ogni giorno. Le mie emozioni di sempre, le mie abitudini regolarmente irregolari, i miei dialoghi con gli altri, i miei adattamenti al consorzio umano: tutto ciò mi sembrava una cosa letta chissà dove, pagine inerti di una biografia stampata, dettagli di un romanzo qualsiasi di certi capitoli intermedi che si leggono pensando ad altro, e il filo della narrativa si sgomitola per terra come un serpe.
                Allora, nella spiaggia il cui unico rumore erano le onde o il vento che passava alto come un grande aeroplano inesistente, mi abbandonavo a un nuovo tipo di sogni: cose informi e soavi, meraviglie dell’impressione profonda, senza immagini, senza emozioni, pulite come il cielo e le acque, che vibravano come i flutti di un mare che si erge dal fondo di una grande verità; tremulamente, di un obliquo azzurro in lontananza che nell’avvicinarsi diventa verde con trasparenze di altri toni verde-sporchi, e dopo aver  infranto stridendo le mille braccia sfatte e averle allungate in sabbia bruna e spuma sbavata, congregando in sé tutte le risacche, i ritorni alla libertà dell’origine, la divina nostalgia, le memorie, come questa che senza forma non mi duoleva: nostalgia di uno stato anteriore, felice perché buono o per qualcos’altro, un corpo di nostalgia con anima di spuma, il riposo, la morte, il tutto o il niente che come un grande mare circonda l’isola di naufraghi che è la vita.
                E io dormivo senza sonno, ormai lontano da ciò che sentendo vedevo, crepuscolo di me stesso, rumore di acqua fra gli alberi, quiete dei grandi fiumi, freschezza delle sere tristi, lento palpitare del petto bianco del sonno infantile della contemplazione.