mercoledì 25 gennaio 2012

Il mare più da vicino

Lo aveva scritto anche Maugham, in La luna e sei soldi: ci sono persone che vivono senza farsi domande. Portano avanti quello che hanno costruito e non alzano gli occhi.
Poi un giorno succede qualcosa. Partono.
E il posto in cui arrivano gli risveglia dentro un qualcosa che li incendia di passione, vedono il colore e improvvisamente capiscono.
Un'epifania li risveglia dal torpore e il luogo che hanno scoperto diventa salvezza e irrinunciabile desiderio.
Questo pezzetto di Camus racconta qualcosa di simile.
Ci sono dentro nostalgia e speranza.
Ma soprattutto
un uomo e il suo mare.


 
Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile. Da allora aspetto. Aspetto le navi del ritorno, la casa delle acque, il giorno limpido. Paziento, cerco con tutte le forze di essere gentile. Mi si deve passare per belle strade dotte, ammiro i paesaggi, applaudo come tutti, porgo la mano, non sono io che parlo. Mi lodano, sto un po’ soprappensiero, mi offendono, mi stupisco un po’. Poi dimentico e sorrido a chi mi oltraggia, o saluto troppo cortesemente chi amo. Che posso farci se ho memoria per una sola immagine? Finalmente mi ingiungono  di dire chi sono. «Niente ancora, niente...»
                Ai funerali supero me stesso. Eccello veramente. Cammino a passo lento in periferie fiorite di ferri vecchi, m’inoltro in larghi viali costeggiati da alberi di cemento che conducono a dei buchi di terra fredda. Là, sotto la fascia del cielo appena rossa, guardo degli arzilli individui inumare i miei amici a tre metri di profondità. E se getto il fiore che una mano terrosa allora mi tende, non sbaglio mai la fossa. Ho la pietà precisa, l’emozione esatta, la nuca opportunamente inclinata. La giustezza delle mie parole viene ammirata. Ma non ho merito: aspetto.
                Aspetto a lungo. A volte faccio un passo falso, perdo la mano, la buona riuscita mi sfugge. Non importa, allora sono solo. Di notte mi sveglio e, mezzo addormentato, mi par di sentire un rumore d’onde, il respiro delle acque. Quando mi sveglio del tutto, riconosco il vento tra le foglie e l’infelice rumore della città deserta. In seguito, tutta la mia arte non mi è di troppo per nascondere l’affanno o vestirlo alla moda.
                Altre volte ne ricevo aiuto. Certi giorni, a New York, perduto in fondo a quei pozzi di pietra e di acciaio dove errano milioni di uomini, correvo da uno all’altro, senza vederne la fine, sfinito, fino a che non fossi più sostenuto che dalla massa umana che cercava un’uscita. Soffocavo, stavo per gridare dal panico. Ma ogni volta un richiamo lontano di un rimorchiatore veniva a ricordarmi che quella città, cisterna asciutta, era un’isola, e che all’estremo della Battery mi aspettava l’acqua del mio battesimo, nera e putrida, coperta di sugheri vuoti.
                Così io che non possiedo nulla, che ho donato la mia fortuna, che sto accampato vicino a tutte le mie case, sono tuttavia soddisfatto quando voglio, la disperazione non mi conosce. Non c’è patria per il disperato e io so che il mare mi precede e mi segue, ho una follia sempre pronta. Coloro che si amano e sono separati possono vivere nel dolore, ma non è disperazione: essi sanno che l’amore esiste. Ecco perché io soffro dell’esilio con occhi asciutti. Aspetto ancora.
Verrà un giorno finalmente...

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