lunedì 13 dicembre 2010

Se la verità è una burla

Ugo Pagliai a teatro, Pirandello.
Lo spettacolo più bello che abbia mai visto.
Ho trascritto una parte dell'Enrico IV, che mi ha letteralmente aperto gli occhi.
Non scrivo altro, tranne che colpirà anche voi. Ne sono certa.
Sipario.


enrico iv
Davanti alla soglia della comune, fin dove li ha accompagnati, li licenzia, ricevendone l’inchino. Donna Matilde e il Dottore, via. Egli chiude la porta e si volta subito, cangiato.
Buffoni! Buffoni! Buffoni! - Un pianoforte di colori! Appena la toccavo: bianca, rossa, gialla, verde... E quell’altro là: Pietro Damiani. - Ah! Ah! Perfetto! Azzeccato! - S’è spaventato di ricomparirmi davanti!
Dirà questo con gaja prorompente frenesia, movendo di qua, di là i passi, gli occhi, finché all’improvviso non vede Bertoldo, più che sbalordito, impaurito del repentino cambiamento. Gli si arresta davanti e additandolo ai tre compagni anch’essi come smarriti nello sbalordimento:
Ma guardatemi quest’imbecille qua, ora, che sta a mirarmi a bocca aperta...
Lo scrolla per le spalle.
Non capisci? Non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio comparire davanti, buffoni spaventati! E si spaventano solo di questo, oh: che stracci loro addosso la maschera buffa e li scopra travestiti; come se non li avessi costretti io stesso a mascherarsi, per questo mio gusto qua, di fare il pazzo!
landolfo arialdo ordulfo
                (sconvolti, trasecolati, guardandosi tra loro). Come! Che dice? Ma dunque?
enrico iv
                (si volta subito alle loro esclamazioni e grida, imperioso): Basta! Finiamola! Mi sono seccato!
                Poi subito, come se, a ripensarci, non se ne possa dar pace, e non sappia crederci:
Perdio, l’impudenza di presentarsi qua, a me, ora - col suo ganzo accanto... - E avevano l’aria di prestarsi per compassione, per non far infuriare il poverino già fuori del mondo, fuori del tempo, fuori della vita! - Eh, altrimenti quello là, ma figuratevi se l’avrebbe subìta una simile sopraffazione! - Loro sì, tutti i giorni, ogni momento, pretendono che gli altri siano come vogliono loro; ma non è mica una sopraffazione, questa! - Che! Che! - È il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno ha il suo! Avete anche voi il vostro, eh? Certo! Ma che può essere il vostro? Quello della mandra! Misero, labile, incerto... E quelli ne approfittano, vi fanno subire e accettare il loro, per modo che voi sentiate e vediate come loro! O almeno si illudono! Perché poi, che riescono a imporre? Parole! parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure così le così dette opinioni correnti! E guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono! Per esempio: «pazzo!» - Per esempio, che so? - «imbecille!» - Ma dite un po’, si può star quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere agli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi? - «Pazzo» «pazzo»! - Non dico ora che lo faccio per ischerzo! Prima, prima che battessi la testa cadendo da cavallo...
S’arresta d’un tratto, notando i quattro che si agitano, più che mai sgomenti e sbalorditi.
Vi guardate negli occhi?
Rifà smorfiosamente i segni del loro stupore.
Ah! Eh! Che rivelazione? - Sono o non sono? - Eh, via, sì, sono pazzo!
Si fa terribile
Ma allora, perdio, inginocchiatevi! inginocchiatevi!
Li forza a inginocchiarsi tutti uno a uno:
Vi ordino di inginocchiarvi tutti davanti a me - così! E toccate tre volte la terra con la fronte! Giù! Tutti davanti ai pazzi, si deve stare così!
Alla vista dei quattro inginocchiati si sente subito svaporare la feroce gajezza, e se ne sdegna.
Su via, pecore, alzatevi! - M’avete obbedito? Potevate mettermi la camicia di forza... - Schiacciare uno col peso d’una parola? Ma è niente! Che è ? Una mosca! - Tutta la vita è schiacciata così dal peso delle parole! Il peso dei morti - Eccomi qua: potete credere sul serio che Enrico IV sia ancora vivo? Eppure, ecco, parlo e comando a voi vivi. Vi voglio così! - Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita? - Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un’alba. Questo giorno che ci sta davanti - voi dite - lo faremo noi! - Sì? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni! Salutatemi tutti i costumi! Mettetevi a parlare! Ripeterete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti!
Si para davanti a Bertoldo, ormai istupidito.
Non capisci proprio nulla, tu, eh? - Come ti chiami?
bertoldo
                Io?... Eh... Bertoldo...
enrico iv
                Ma che Bertoldo, sciocco! Qua a quattr’occhi: come ti chiami?
bertoldo
                Ve... veramente mi... mi chiamo Fino...
enrico iv
                (a un atto di richiamo e di ammonimento degli altri tre, appena accennato, voltandosi subito per farli tacere). Fino?
bertoldo
                Fino Pagliuca, sissignore.
enrico iv
                (volgendosi di nuovo agli altri). Ma se vi ho sentito chiamare tra voi, tante volte!
                A Landolfo
                Tu ti chiami Lolo?
landolfo
                Sissignore...
                Poi con uno scatto di gioja:
                Oh Dio... Ma allora?
enrico iv
                (subito, brusco). Che cosa?
landolfo
                (d’un tratto smorendo). No... dico...
enrico iv
                Non sono più pazzo? Ma no. Non mi vedete? - Scherziamo alle spalle di chi ci crede.
                Ad Arialdo
                So che tu ti chiami Franco...
                A Ordulfo
                E tu, aspetta...
ordulfo
                Momo!
enrico iv
                Ecco, Momo! Che bella cosa, eh?
landolfo
                (c. s.). Ma dunque... oh Dio...
enrico iv
                (c. s.). Che? Niente! Facciamoci tra noi una bella, lunga, grande risata...
                E ride.
                Ah, ah, ah, ah, ah, ah!
landolfo arialdo ordulfo
                (guardandosi tra loro, incerti, smarriti, tra la gioja e lo sgomento). È guarito? ma sarà vero? Com’è?
enrico iv
                Zitti! Zitti!
                A Bertoldo:
Tu non ridi? Sei ancora offeso? Ma no! Non dicevo mica a te, sai? - Conviene a tutti, capisci? conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare. Che dico io di quelli là che se ne sono andati? Che una è una baldracca, l’altro un sudicio libertino, l’altro un impostore... Non è vero! Nessuno può crederlo! - Ma tutti stanno ad ascoltarmi, spaventati. Ecco, vorrei sapere perché, se non è vero. - Non si può mica credere a quel che dicono i pazzi! - Eppure, si stanno ad ascoltare così, con gli occhi sbarrati dallo spavento. - Perché? Dimmi, dimmi tu, perché? Sono calmo, vedi?
bertoldo
                Ma perché... forse, credono che...
enrico iv
No, caro... no, caro... Guardami bene negli occhi... - Non dico che sia vero, stai tranquillo! - Niente è vero! - Ma guardami negli occhi!
bertoldo
                Sì, ecco, ebbene?
enrico iv
Ma lo vedi? lo vedi? Tu stesso! Lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi! - Perché ti sto sembrando pazzo! - Ecco la prova! Ecco la prova!
E ride.
landolfo
                (a nome degli altri, facendosi coraggio, esasperato). Ma che prova?
enrico iv
Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! - Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! - È vero o no?
Li guarda un po’, li vede atterriti.
Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto ai piedi e vi tolga l’aria da respirare? Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! - Eh! che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! - Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! - Voi dite: «questo non può essere!» - e per loro può essere tutto. - Ma voi dite che non è vero. E perché? - Perché non par vero a te, a te, a te,
indica tre di loro,
e centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo dànno dei loro accordi, fiori di logica! Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero jeri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che siete uno accanto all’altro, e gli guardate gli occhi - come io guardavo un giorno certi occhi - potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo modo impenetrabile vi vede e vi tocca...
Pausa lungamente tenuta. L’ombra, nella sala, comincia ad addensarsi, accrescendo quel senso di smarrimento e di più profonda costernazione da cui quei quattro mascherati sono compresi e sempre più allontanati dal grande Mascherato, rimasto assorto a contemplare una spaventosa miseria che non è di lui solo, ma di tutti. Poi egli si riscuote, fa come per cercare i quattro che non sente più attorno a sé e dice:
S’è fatto bujo, qua.
ordulfo
                (subito, facendosi avanti). Vuole che vada a prendere la lampa?
enrico iv
(con ironia). La lampa, sì... Credete che non sappia che, appena volto le spalle con la mia lampa ad olio per andare a dormire, accendete la luce elettrica per voi - qua e anche là nella sala del trono? - Fingo di non vederla...
ordulfo
                Ah! - Vuole allora...?
enrico iv
                No: m’accecherebbe. - Voglio la mia lampa.
ordulfo
                Ecco, sarà già pronta, qua dietro la porta.
Si reca alla comune; la apre; ne esce appena e subito ritorna con una lampa antica, di quelle che si reggono con un anello in cima.
enrico iv
(prendendo la lampa e poi indicando la tavola sul coretto). Ecco, un po’ di luce. Sedete, lì attorno alla tavola. Ma non così! In belli e sciolti atteggiamenti...
Ad Arialdo:
Ecco, tu così...
lo atteggia, poi a Bertoldo:
E tu così...
lo atteggia:
Così, ecco...
Va a sedere anche lui.
E io, qua...
Volgendo il capo verso una delle finestre.
Si dovrebbe poter comandare alla luna un bel raggio decorativo... Giova, a noi, giova, la luna. Io per me, ne sento il bisogno, e mi ci perdo spesso a guardarla dalla mia finestra. Chi può credere, a guardarla, che lo sappia che ottocent’anni siano passati e che io, seduto alla finestra non possa essere davvero Enrico IV che guarda la luna, come un pover’uomo qualunque? Ma guardata, guardata che magnifico quadro notturno: l’Imperatore tra i suoi fidi consiglieri... Non ci provate gusto?
landolfo
                (piano ad Arialdo, come per non rompere l’incanto). Eh, capisci? A sapere che non era vero.
enrico iv
                Vero, che cosa?
landolfo
                (titubante, come per scusarsi). No... ecco... perché a lui
                indica Bertoldo
entrato nuovo in servizio... io, appunto questa mattina, dicevo: Peccato, che così vestiti... e poi con tanti bei costumi, là in guardaroba... e con una sala come quella...
accenna alla sala del trono.
enrico iv
                Ebbene? Peccato, dici?
landolfo
                Già... che non sapevamo...
enrico iv
                Di rappresentarla per burla, qua, questa commedia?
landolfo
                Perché credevamo che...
arialdo
                (per venirgli in aiuto). Ecco... sì che fosse sul serio!
enrico iv
                E com’è? Vi pare che non sia sul serio?
landolfo
                Eh, se dice che...
enrico iv
Dico che siete sciocchi! Dovevate sapervelo fare per voi stessi, l’inganno; non per rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in tanto; ma così, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a nessuno
a Bertoldo, prendendolo per le braccia,
per te, capisci, che in questa finzione ci potevi mangiare, dormire, e grattarti anche una spalla, se ti sentivi un prurito;
sentendovi vivi, vivi veramente nella storia del mille e cento, qua alla Corte del vostro Imperatore Enrico IV! E pensare, da qui, da questo nostro tempo remoto, così colorito e sepolcrale, pensare che a una distanza di otto secoli in giù, in giù, gli uomini del mille e novecento si abbaruffano intanto, s’arrabattano in un’ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione. Mentre voi, invece, già nella storia! con me! Per quanto tristi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: che vi ci potete adagiare, ammirando come ogni effetto segua obbediente alla sua causa, con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolga preciso e coerente in ogni suo particolare. Il piacere, il piacere della storia, insomma, che è così grande!
landolfo
                Ah, bello! bello!
enrico iv
                Bello, ma basta! Ora che lo sapete, non potrei farlo più io!
                Prende la lampa per andare a dormire.
                Né del resto voi stessi, se non ne avete inteso finora la ragione. Ne ho la nausea adesso!
                Quasi tra sé, con violenta rabbia contenuta:
Perdio! debbo farla pentire d’esser venuta qua! Da suocera oh, mi s’è mascherata... E lui da padre abate... - E mi portano con loro un medico per farmi studiare... E chi sa che non sperino di farmmi guarire... Buffoni! - Voglio avere il gusto di schiaffeggiargliene almeno uno: quello! - È un famoso spadaccino? M’infilzerà... Ma vedremo, vedremo...
Si sente picchiare alla comune.
Chi è?
voce di giovanni
                Deo gratias!
arialdo
(contentissimo, come per uno scherzo che si potrebbe ancora fare). Ah, è Giovanni, è Giovanni, che viene come ogni sera a fare il monacello!
ordulfo
                (c. s., stropicciandosi le mani). Sì, sì, facciamoglielo fare! facciamoglielo fare!
enrico iv
(subito, severo). Sciocco! Lo vedi? Perché? Per fare uno scherzo alle spalle di un povero vecchio, che lo fa per amor mio?
landolfo
                (a Ordulfo). Dev’essere come vero! Non capisci!
enrico iv
                Appunto! Come vero! Perché solo così non è più una burla la verità!
Si reca ad aprire la porta e fa entrare Giovanni parato da umile fraticello, con un rotolo di cartapecora sotto il braccio.
Avanti, avanti, padre!
Poi  assumendo un tono di tragica gravità e di cupo risentimento:
Tutti i documenti della mia vita e del mio regno a me favorevoli furono distrutti, deliberatamente, dai miei nemici: c’è solo, sfuggita alla distruzione, questa mia vita scritta da un umile monacello a me devoto, e voi vorreste riderne?
Si rivolge amorosamente a Giovanni e lo invita a sedere davanti alla tavola:
Sedete, padre, sedete qua. E la lampa accanto.
Gli posa accanto la lampa che ha ancora in mano.
Scrivete, scrivete.
giovanni
                (svolge il rotolo di cartapecora, e si dispone a scrivere sotto dettatura). Eccomi pronto, Maestà!
enrico iv
(dettando). Il decreto di pace emanato a Magonza giovò ai meschini ed ai buoni, quanto nocque ai cattivi e ai potenti.
Comincia a calare la tela.
Apportò dovizie ai primi, fame e miseria ai secondi...

martedì 7 dicembre 2010

Specchio



Ogni promessa, di Andrea Bajani.
Mi è capitato tra le mani quasi per caso.
L'ho preso senza nemmeno leggere la trama.
Ho pensato Proviamo.
Qui sotto vi ho trascritto l'inizio, che mi ha colpita in modo inaspettato e potente.
Bajani mi si è rivelato come uno scrittore degno del suo mestiere. E di questi tempi, ve l'assicuro non è facile.
Mette le parole al posto giusto, con la forza o la debolezza che ti destabilizzano e stordiscono, ma sorridi.
Usa le immagini, sa dove farle partire, sa scioglierle e adattarle a ciò che vuole.
Spazia.
Leggendo di questo, il succo di una vita, guardata dal balcone di un appartamento adiacente, mi è caduta addosso una coperta tiepida di cose già vissute, di odore di casa mia, di verità.
Le piccolezze quotidiane. Le tragedie che si gonfiano dentro le case e che troppo spesso non trovano finestre aperte da cui sfiatare. L'euforia.
E' tutto così semplicemente vero e minuto, che viene quasi da piangere a vedertelo lì davanti, nella pagina inzuppata di nero. E' tutto così vicino e troppo difficile che non può essere altro che vita vera.
Non aggiungo altro, promesso.
Ma vi guardo le spalle, mentre leggete a capofitto la vostra storia.

I primi tempi che vivevamo insieme Sara la mattina mi accompagnava a scuola per vedere i bambini. Eravamo appena arrivati in quel palazzo, il trasloco era stato abbastanza sbrigativo, e come tutti i traslochi era stata un’audizione, i condòmini che ci guardavano dalla finestra e noi che cercavamo di non dire e non fare niente che potesse infastidirli, volevamo subito essere accettati. Così all’inizio sul balcone mettevamo solo fiori molto appariscenti, stendevamo i vestiti migliori, e ci mostravamo sempre la più affiatata delle coppie. Quando litigavamo chiudevamo le finestre per non farci sentire, e ci soffiavamo dentro tutta la rabbia che avevamo. La stanza si gonfiava della nostra furia, le pareti si incurvavano, la camera si faceva grotta, a ogni urlo un soffio in più, i muri che spingevano all’infuori, il soffitto che saliva. E così pensavamo alla signora del piano di sopra, e a suo nipote, che vedevano il pavimento gonfiarsi all’improvviso sotto i piedi. Poi quando avevamo finito di discutere riaprivamo le finestre, la nostra rabbia sfiatava fuori tutta insieme in un unico soffio che vibrava, i muri tornavano dritti e così pure il pavimento. E noi uscivamo sul balcone pieni di sorrisi, e se vedevamo qualcuno dicevamo Buongiorno come va? Per le scale salutavamo tutti, io che mi presentavo e stringevo le mani dei vicini, e Sara che diceva sempre Noi, perché dire Noi era più rassicurante. E poi perché era romantico, era come rimettersi insieme ogni volta, come scegliersi di nuovo. E infine, soprattutto perché Noi era un auspicio.

Dentro il Noi che Sara pronunciava c’era tutta la vita che avremmo fatto insieme, come una valigia riempita fino all’orlo di parole e su cui poi ci si doveva sedere, per poterla chiudere. Perché esistesse quel Noi era necessario che ci fossero dei figli. Perché il suo Noi era: Noi che adesso siamo solo in due ma poi saremo il tre o quattro se non cinque, e vi riempiremo il palazzo di bambini che all’inizio piangeranno un po’, poi usciranno sul balcone con qualcuno che li farà camminare sulle punte e voi potrete salutarli se vorrete, poi sul balcone giocheranno da soli con la faccia dentro la merenda, poi li vedrete uscire dal portone per mano alla madre per andare a scuola, poi li vedrete uscire da soli, fare due metri, voltarsi indietro, girare l’angolo e accendersi una sigaretta, allora ci sentirete litigare con loro e sentirete sbattere le porte, le urla che passeranno da una stanza all’altra della casa, poi ci sentirete litigare tra di noi, tra madre e padre, perché non saremo d’accordo sui modi di educare, e uno di noi lo vedrete uscire nervoso sul balcone a fumare e tornare dentro e di nuovo uscire, e dei nostri figli qualcuno uscirà tutti i pomeriggi e qualcun altro invece starà sempre chiuso in casa, e gli vedrete cambiare le andatura giù in cortile, rimpettirsi sui sederi oppure rimbalzare molleggiati come scimmie, qualcuno aprirà le spalle strafottente e qualcun altro le richiuderà impaurito, e poi cominceranno a portare a casa i fidanzati e le fidanzate e quando vi abituerete a uno di loro di colpo poi non verrà più, e andranno all’università e li vedrete partire la domenica con un borsone e tornare il sabato con lo stesso borsone più sformato, e li vedrete portare via le loro poche cose in un trasloco e venire ogni tanto per pranzo la domenica e per Pasqua e per Natale, e noi, noi madre e noi padre, ci vedrete all’improvviso orfani di figli stare seduti per lunghe ore sul balcone senza dirci niente, per poi scattare in casa al suono del telefono e avere di nuovo qualcosa da dirci dopo la telefonata, e poi vedrete delle pance crescere attraversando il cortile insieme ai nostri figli e tutto ricomincerà, e sentirete piangere un’altra volta dentro casa e noi che allora invecchieremo tutto d’un colpo, in uno schianto improvviso, e sorrideremo accontentandoci, affaccendati da questi figli che i nostri fogli ci avranno dato al posto loro.

E però noi facevamo l’amore e un figlio non voleva saperne di arrivare. Era il nostro Noi che ogni mese cadeva in terra e si spaccava in due, e a furia di incollarlo poi non si è aggiustato più. I primi mesi era stato normale, fare ogni volta tutto il giro, scollinare i cicli mestruali senza chiedersi nulla, non pensarci nemmeno, solo fare l’amore perché non si poteva fare altro che cercarsi dentro i vestiti appena si era un po’ vicini. Poi era venuto quel pensiero dei figli, un pensiero che all’inizio era un pensiero bello con cui ci abbracciavamo prima di dormire. Così fare l’amore era diventato il modo per provare a gonfiare il nostro Noi, da due che eravamo farlo diventare tre e poi quattro, come un palloncino a forma di coniglio che soffi forte e prima non succede niente poi di colpo sbuca un orecchio. In quel periodo Sara mi accompagnava spesso a scuola, la mattina, salutava i bambini delle mie classi come se fossero tutti quanti figli nostri. Qualcuno lo prendeva in braccio, mi chiedeva Come mi vedi? Ogni mese era la stessa illusione. Per qualche settimana ci credevamo, Sara diceva che se lo sentiva. E allora andavamo in giro travestiti da famiglia, in due dietro una pancia, gli occhi che guardavano tutto dividendo per tre. E c’era una forza immensa, Sara mi diceva Io non ho paura di niente e di nessuno. E tutte le donne incinte che incontravamo Sara trovava un modo per avvicinarle, anche senza dirsi nulla, solo starci vicino, lasciare che le pance si parlassero tra loro. Poi però ogni volta non succedeva niente, e i mesi cominciavano a passare, e di fare visite nessuno dei due ne voleva sapere, almeno dividersi le colpe. Lei a scuola però non ci voleva più venire, ogni mattina inventava una scusa diversa per restare a casa, mi salutava sulla porta. Ogni volta che la sentivo aprire il cassetto in cui teneva gli assorbenti in bagno, sapevo che l’avrei vista uscire mordendosi le labbra. Mi si sarebbe seduta accanto, e per ore non avrebbe detto niente. Poi la sera mi avrebbe cercato furiosa dentro il letto. Così avevamo preso a fare l’amore in un modo scomposto, lei che mi si avventava contro, i piedi che le si stringevano di rabbia, gli occhi socchiusi di furore. Poi restavamo lì, ognuno nella sua parte di letto a respirare con gli occhi aperti, ognuno con un dolore che tanto era solo suo, che non poteva essere l’altro a consolare.

domenica 28 novembre 2010

Lezione su Pascoli

Questo è un estratto dal libro 24 nero, l'autore è Diego Cugia.
La prima volta che l'ho letto ne sono stata inglobata, totalmente.
Non riuscivo a smettere di proseguire. Drogata e ammaliata da queste pagine così pregne e umane.
La storia è ricca di spunti e l'ambientazione ai giorni nostri permette di immedesimarsi pienamente.
Ho amato questo libro. Ne ho amato i personaggi, creati con maestria, che mi sono restati dentro anche molto tempo dopo aver chiuso l'ultima pagina.
Ne ho amato l'inquadratura che l'autore ha scelto, la possibilità di guardare attraverso gli occhi dei protagonisti, senza giudicarli mai.
Eccovi un pezzettino, a fatica estrapolato da quel "tutto" così uniforme e corposo.
Mi auguro che vi piaccia.

                                                                           Kniewald Demian

Aprì la porta della III B. Si mordicchiò un labbro.
«Paoli, lo sai che dovrei spedirti dal preside, vero?» Bompiani controllò l’orologio sotto il crocifisso: «A cosa dobbiamo questa mezzoretta di ritardo?».
                «Leggevo e non mi ero accorta che si era fatta ora.»
                «Scusa furba con un professore di Lettere. Come se un calciatore, per giustificarsi di aver fatto tardi all’allenamento, raccontasse che stava palleggiando in camera sua.» Una ventina di volti scattarono dalla cattedra alla porta e viceversa. Il professore sentì serpeggiare il sadismo del branco quando il singolo è in difficoltà.
                «Che cosa stavi leggendo?»
                «La breve favolosa vita di Oscar Wao.»
                «Magnifico romanzo, Junot Dìaz è un petit Proust dei Caraibi, hai fatto bene.» Mormorio di protesta, risate. «Silenzio, non scherzo mai sulla letteratura. Vai al tuo posto, Paoli.»
                Eva allungò le braccia intrecciate sul banco.
                [...]
                «Pur di vedervi con un romanzo in mano preferirei che saltaste le lezioni» disse. «La televisione sta erodendo le parole. Poesie e romanzi si stanno sgretolando come la Sfinge, mentre le immagini vi cementano il cervello. Ma c’è più storia in Oscar Wao che in cento edizioni del telegiornale.»
                «E  chi se lo guarda il telegiornale, bellaci’! Tutte cazzate» lo provocò Elio Delussi detto Bellaciccio, suo saluto e intercalare. Dalle microcasse irradiò a palla un pezzo dei Led Zeppelin che Eva gli aveva fatto scoprire e lui riteneva la loro canzone. In fondo all’aula si misero a ballare. Lei no.
                Il professore spense l’iPod:
                «Tutte cazzate? Te ne dirò un’altra: è più moderno un verso di Pascoli che un iPod dell’ultima generazione.»
                Delussi lo compatì, inforcò gli occhiali blu.
                «Non sbuffare, Elio. Ve lo dimostrerò con una poesia, La pecorella smarrita. Lo sai che nella Via Lattea ci sono miliardi di stelle? Immagina di aver abbordato una tipa fantastica, lei ci starebbe con te, ma c’è un problema.»
                «Nessun problema, bellaci’.»
                «Abita in un quartiere periferico molto distante da qui.»
                «Che mi frega? Ho la Honda Shadow.»
                «Non ci vai in moto, la tua bionda galattica vive su Alfa Centauri, la stella più vicina a noi, a parte il sole, purtroppo si trova a 40.850 miliardi di chilometri dalla Terra.»
                «Che sfiga.»
                «Sfiga perché il tuo amore vive a miliardi di chilometri da te? E tu rinunci? Resterai eternamente solo.»
                «Mai stato solo, le assicuro.»
                «Ridete, ridete. Ne riparleremo quando boccheggerete in un call center o dovrete inchinarvi in giacca bianca nel ristorante di un coreano con tre lauree.» Si accorse di essere stato violento, entrambe le loro generazioni soffrivano della medesima abulia, negli ultimi anni si era solo più accentuata.
                «Ci stava parlando del telegiornale, che c’entra Pascoli?»
                «C’entra, io aprirei tutte le sere il Tg1 con la notizia che siamo un puntino fra miliardi di galassie.»
                «Per questo, quando faceva il giornalista, non l’hanno mai nominata direttore» ribatté Elio.
                [...]
                «Bellaci’ non ha torto [...] però non ha risolto il problema. Neppure a Cape Canaveral ci sono riusciti. Pascoli era più tecnologico della NASA. Gli bastano quattro versi per navigare nell’universo. Ti sei fatto rubare la donna da un poeta del secolo scorso.» Elio sbirciò Eva, geloso anche di Pascoli:
                «Questo è ancora da vedere.»
                «Vediamolo.» Bompiani tamburellò sulla cattedra: «Immaginate che Pascoli fosse il nonno di E.T. l’Extraterrestre. Il suo protagonista non è un alieno, ma un frate che all’alba esce dal convento svegliato da una voce». La sua tremò con una vibrazione ardente che catturò i ragazzi chini sulle antologie.

                               «“Frate” una voce gli diceva, “è l’ora
                               che tu ti svegli. Alzati! La rugiada
                               è sulle foglie, e viene già l’aurora”.»

                Scivolò sulle terzine seguenti, dall’albero dell’italiano tante parole erano già cadute, dilungandosi a spiegarle sarebbe caduta anche l’emozione. Schioccò le dita: gli studenti lo fissarono sospesi. Nel grande silenzio proseguì da esploratore che, scoperto un arcipelago, battezza ogni atollo con una parola mai pronunciata da essere umano.

                               «“Sentiva in cuore il rombo della voce.
                               Su lui, con le infinite stelle, lento,
                               fluiva il cielo verso la sua foce.

                               Era il dì del Signore, era l’avvento.
                               Spariva sotto i baratri profondi
                               colmi di stelle il tacito convento.

                               Mucchi di stelle, grappoli di mondi,
                               nebbie di cosmi”...

                ... Avete sentito?»
                «Sentito cosa, bellaci’?» lo sfotté Delussi, ma gli scapparono una smorfia timida e un’altra sbirciata a Eva che non se lo filò.
                «Non era il rombo della Honda ma il suono dell’universo. Siamo nel quartiere della tua conquista. Lei abita qui fra mucchi di stelle, grappoli di mondi. Pascoli ti ha anticipato di un milione di anni luce. Ha suonato al campanello della tua ragazza. Sai come ha fatto a scoprire l’indirizzo di questa velina di Alfa Centauri, vestita in minigonna di carta da presepio? Col TomTom? Con un più sofisticato navigatore satellitare? No, l’ha trovata con la mappa del tesoro della poesia, tre versi, questi:

                               “In quella immensa polvere di luce
                               splendeano, occhi di draghi e di leoni,
                               Vega, Deneb, Aldebaran, Polluce”...»

                «E chi sarebbero?»
                «Stelle, fanciulli, stelle. Pascoli ha scoperto la pecorella smarrita con lo stradario dell’infinito, il TomTom dei poeti.»
                «Che gli fregava, a Pascoli, della tipa di Bellaciccio?»
                «Assolutamente niente» ammise. «Non è la ragazza di Elio, per il frate, la pecorella smarrita, ma la Terra. Su tutti gli altri pianeti non esiste il male. Per questo Cristo si è fatto crocifiggere soltanto qui, sul nostro pianeta sperduto fra miliardi di galassie. Per ritrovarci, dice il poeta, o se preferisci per indicarci la via delle stelle.» La campanella mise il punto alla lezione.

lunedì 22 novembre 2010

Il tuo amore ha ali larghe

L'ultimo post che ho pubblicato mi ha fatto tornare in mente un'altra lettera, che avevo scoperto qualche anno fa, letta in televisione da Roberto Benigni. Sono andata a cercarmela.
Non credo siano necessarie molte parole, a dire il vero.
Si sappia solo che è stata scritta da Oscar Wilde, incarcerato perchè colpevole di omosessualità.
E' per questo motivo che penso sia necessario leggere queste parole, che mi incidono la carne da quanto sono vive e sofferenti.
Spero che righe come queste vi entrino in testa, per trasmettervi visceralmente il messaggio che portano.
Che, ormai, è l'unica cosa che gli resta da fare.


Mio carissimo ragazzo,
questo è per assicurarti del mio amore immortale, eterno per te. Domani sarà tutto finito. Se la prigione e il disonore saranno il mio destino, pensa che il mio amore per te e questa idea, questa convinzione ancora più divina, che tu a tua volta mi ami, mi sosterranno nella mia infelicità e mi renderanno capace, spero, di sopportare il mio dolore con ogni pazienza. Poiché la speranza, anzi, la certezza, di incontrarti di nuovo in un altro mondo è la meta e l'incoraggiamento della mia vita attuale, ah! debbo continuare a vivere in questo mondo, per questa ragione.
Il nostro caro amico mi e' venuto a trovare oggi. Gli ho dato parecchi messaggi per te. Mi ha detto una cosa che mi ha rassicurato: che a mia madre non mancherà mai niente. Ho sempre provveduto io al suo mantenimento, e il pensiero che avrebbe potuto soffrire delle privazioni mi rendeva infelice.
Quanto a te (grazioso ragazzo dal cuore degno di un Cristo), quanto a te, ti prego, non appena avrai fatto tutto quello che puoi fare, parti per l'Italia e riconquista la tua calma, e componi quelle belle poesie che sai fare tu, con quella grazia così strana. Non esporti in Inghilterra per nessuna ragione al mondo. Se un giorno, a Corfù o in qualche isola incantata, ci fosse una casetta dove potessimo vivere insieme, oh! la vita sarebbe più dolce di quanto sia stata mai. Il tuo amore ha ali larghe ed è forte, il tuo amore mi giunge attraverso le sbarre della mia prigione e mi conforta, il tuo amore è la luce di tutte le mie ore. Se il fato ci sarà avverso, coloro che non sanno cos'è l'amore scriveranno, lo so, che ho avuto una cattiva influenza sulla tua vita. Se ciò avverrà, tu scriverai, tu dirai a tua volta che non è vero. Il nostro amore è sempre stato bello e nobile, e se io sono stato il bersaglio di una terribile tragedia, è perché la natura di quell'amore non è stata compresa.
Nella tua lettera di stamattina tu dici una cosa che mi dà coraggio. Debbo ricordarla. Scrivi che è mio dovere verso di te e verso me stesso vivere, malgrado tutto. Credo sia vero. Ci proverò e lo farò. Voglio che tu tenga informato Mr Humphreys dei tuoi spostamenti così che quando viene mi possa dire cosa fai. Credo che gli avvocati possano vedere i detenuti con una certa frequenza. Così potrò comunicare con te.
Sono così felice che tu sia partito! So cosa deve esserti costato. Per me sarebbe stato un tormento pensarti in Inghilterra mentre il tuo nome veniva fatto in tribunale. Spero tu abbia copie di tutti i miei libri. I miei sono stati tutti venduti. Tendo le mani verso di te. Oh! possa io vivere per toccare i tuoi capelli e le tue mani. Credo che il tuo amore veglierà sulla mia vita. Se dovessi morire, voglio che tu viva una vita dolce e pacifica in qualche luogo tra fiori, quadri, libri, e moltissimo lavoro.
Cerca di farmi avere tue notizie. Ti scrivo questa lettera in mezzo a grandi sofferenze; la lunga giornata in tribunale mi ha spossato. Carissimo ragazzo, dolcissimo fra tutti i giovani, amatissimo e più amabile. Oh! aspettami! aspettami! io sono ora, come sempre dal giorno in cui ci siamo conosciuti, devotamente il tuo, con un amore immortale
Oscar

mercoledì 17 novembre 2010

Il rispetto che esige silenzio

Preso da Poesia in forma di rosa, questo Frammento epistolare, al ragazzo Codignola mi ha portato subito in un altro posto.
Ero in treno e tenevo il libro tra le mani, come si tiene un oggetto fragile ma che emana una forza che spinge.
Ho letto. E qualcosa mi ha preso alla gola.
Sono parole che conosco, parole che mi trovo dentro, e vederle lì, tutto ad un tratto, esposte e composte in quel modo delicato e terribile, mi ha toccata.

Ora leggete.
Tutto d'un fiato.
Cercate di farvi trasportare dalle parole, anche se non sapete cosa significano, anche se dovreste tornare indietro per capire.
No.
Non adesso.
Lasciate che vi fluisca dentro un'emozione.
Lasciate che parli anche di voi.
La ragione, quella, verrà dopo.
Dopo il silenzio.


Caro ragazzo, sì, certo, incontriamoci,
ma non aspettarti nulla da questo incontro.
Se mai, una nuova delusione, un nuovo
vuoto: di quelli che fanno bene
alla dignità narcissica, come un dolore.
A quarant’anni io sono come a diciassette.
Frustrati, il quarantenne e il diciassettenne
si possono, certo, incontrare, balbettando
idee convergenti, su problemi
tra cui si aprono due decenni, un’intera vita,
e che pure apparentemente sono gli stessi.
Finché una parola, uscita dalle gole incerte,
inaridita di pianto e voglia d’esser soli -
ne rivela l’immedicabile disparità.
E, insieme, dovrò pure fare il poeta
padre, e allora ripiegherò sull’ironia
- che t’imbarazzerà: essendo il quarantenne
più allegro e giovane del diciassettenne,
lui, ormai padrone della vita.
Oltre a questa apparenza, a questa parvenza,
non ho niente altro da dirti.
Sono avaro, quel poco che possiedo
me lo tengo stretto al cuore diabolico.
E i due palmi di pelle tra zigomo e mento,
sotto la bocca distorta a furia di sorrisi
di timidezza, e l’occhio che ha perso
il suo dolce, come un fico inacidito,
ti apparirebbero il ritratto
proprio di quella maturità che ti fa male,
maturità non fraterna. A che può servirti
un coetaneo - semplicemente intristito
nella magrezza che gli divora la carne?
Ciò ch’egli ha dato ha dato, il resto
è arida pietà.
Questo post lo dedico ad un mio amico, Gabriele. Fa lo scrittore. E lui sa perchè.

domenica 14 novembre 2010

L'insostenibile sofferenza dell'essere donna

Elena. Donna bellissima.
Ho sempre pensato a lei in modo vago e con una punta di risentimento.
Troppo bella. In qualche modo snob. Mi irritava che per causa sua fossero morte migliaia di persone. Accecati dall'odio e dal vapore velenoso del suo splendore.
Mi dicevo che si sarebbe potuta ribellare, che avrebbe dovuto far sentire la sua voce.
Poi ho letto Omero, Iliade, la riscrittura che ne ha fatto Baricco. E ho colto solo una grande sofferenza.
Qui è una donna sola. Che non vuole altro che tornare a casa. Stanca. Di essere guardata. Di essere additata come causa primordiale di tutte le sciagure. E mi sono improvvisamente accorta di provare un qualcosa come solidarietà, verso di lei. Un sentimento sottile che mi ha legata alla sua figura ritagliata con cura ma troppo debole per riuscire a sollevarsi.
Non so. Ma ogni volta che affondo tra le righe piumate dell'Iliade, mi accorgo che la storia mi prende alle viscere. E non capisco come questo possa accadere, a distanza di migliaia di anni.
Allora, ecco per voi questo.
Spero che alla fine l'emozione vi prenda, come brivido inatteso, ma umano.
Elena.

Come una schiava, io quel giorno stavo in silenzio, nelle mie stanze, costretta a tessere su una tela color sangue le imprese dei Troiani e degli Achei in quella dolorosa guerra combattuta per me. D’un tratto vidi Laodice, la più bella delle figlie di Priamo, entrare e gridarmi “Corri, Elena, vieni a vedere laggiù, Troiani e Achei... erano tutti nella pianura, e stavano per scontrarsi, avidi di sangue, e adesso stanno in silenzio, gli uni davanti agli altri, con gli scudi appoggiati al suolo e le lance piantate a terra... Si dice che abbiano cessato la guerra, e che Paride e Menelao combatteranno per te: tu sarai il premio del vincitore”.
                Io la ascoltai, e d’improvviso mi venne da piangere, perché grande, in me, era la nostalgia per l’uomo che avevo sposato, e per la mia famiglia, e la mia patria. Mi coprii con un velo bianco splendente e corsi verso le mura, ancora con le lacrime agli occhi. Quando arrivai sul torrione delle porte Scee vidi gli anziani di Troia, radunati lì a guardare ciò che accadeva nella pianura. Erano troppo vecchi per battersi, ma gli piaceva parlare e in quello erano dei maestri. Come cicale su un albero, non la smettevano mai di far sentire la loro voce. Li sentii che borbottavano quando mi videro, “Non c’è da stupirsi che Troiani e Achei si ammazzino per quella donna, non sembra una dea? Che le navi se la portino via, lei e la sua bellezza, o non finirà mai la rovina nostra e dei nostri figli”. Così dicevano, ma senza osare guardarmi. L’unico che osò farlo fu Priamo. “Vieni qui, figlia”, mi disse, ad alta voce, “Siediti accanto a me. Tu non hai colpa per tutto questo. Sono gli dei che mi hanno tirato addosso questa sventura. Vieni, da qui si possono vedere tuo marito, e i tuoi parenti, gli amici... dimmi, chi è quell’uomo imponente, quel guerriero acheo così nobile e grande? Altri sono più alti di lui ma non ho mai visto uno così bello, così maestoso: ha l’aspetto di un re.” Allora io andai accanto a lui e risposi: “Ho rispetto e paura di te, Priamo, padre del mio nuovo sposo. Oh, se solo avessi avuto il coraggio di morire piuttosto che seguire tuo figlio fin quaggiù e abbandonare il mio letto nuziale, e la figlia ancora bambina, e le amate compagne... ma non è stato così, ed ora io mi consumo nel pianto. Ma tu vuoi sapere chi è quel guerriero... È il figlio di Atreo, Agamennone, re potentissimo e forte guerriero: un tempo, se mai ci fu quel tempo, era il cognato di questa donna indegna che ora ti sta parlando”. Priamo continuava a guardare, giù, tra i guerrieri. “E quell’uomo”, mi chiese, “Chi è? È più basso di Agamennone ma ha il petto e le spalle più larghi. Lo vedi?, passa in rassegna le file degli uomini e sembra un montone di fitto vello che si aggira tra il gregge di pecore bianche.” “Quello è Ulisse”, risposi, “Figlio di Laerte, cresciuto ad Itaca, l’isola di pietra, e famoso per la sua astuzia e la sua intelligenza.” “È vero”, disse Priamo, “Io l’ho conosciuto. Un giorno venne qui in ambasciata, insieme a Menelao, per discutere della tua sorte. Io li accolsi nella mia casa. Mi ricordo che Menelao parlava velocemente, con poche parole, molto chiare. Parlava bene ma era giovane... Ulisse invece... quando toccava a lui parlare, se ne restava immobile, guardando in basso, sembrava non sapesse cose dire: sembrava sopraffatto dalla collera o completamente pazzo; ma quando poi alla fine parlava gli usciva una voce così profonda... le parole sembravano fiocchi di neve d’inverno... e allora nessun uomo avrebbe osato sfidarlo, figlia mia, e non importava se era più piccolo di Menelao o di Agamennone...” Poi Priamo scorse tra i guerrieri Aiace, e mi chiese “E quello chi è, così grande e forte da superare tutti gli altri Achei?”. E io risposi, e gli parlai di Aiace, e poi di Idomeneo, e poi di tutti i principi achei. Potevo riconoscerli tutti, adesso, gli Achei dagli occhi lucenti, uno a uno avrei potuto raccontarli a quel vecchio che da me voleva sapere chi erano i suoi nemici. Ma a quel punto arrivò Ideo, l’araldo, si avvicinò a Priamo, e gli disse “Alzati, figlio di Laomedonte. I condottieri dei Teucri domatori di cavalli e degli Achei dalle corazze di bronzo ti invitano a scendere dalla pianura, per sancire un nuovo patto tra i due eserciti. Paride e Menelao con le loro lunghe lance si batteranno per Elena. Tutti gli altri suggelleranno un patto di amicizia e di pace”. Stette ad ascoltarlo, Priamo. E rabbrividì. Ma poi ordinò che fossero preparati i cavalli e quando tutto fu fatto salì sul carro veloce, insieme ad Antènore, e uscì al galoppo dalle porte Scee. Attraversarono la pianura e quando raggiunsero gli eserciti si fermarono proprio in mezzo, fra Troiani e Achei. Vidi Agamennone alzarsi, e con lui Ulisse. Gli araldi portarono gli animali per i sacrifici con cui si sarebbero suggellati i patti. Mescolarono il vino nella grande coppa, e versarono acqua sulle mani del re. Poi Agamennone levò al cielo le mani, e pregò Zeus a nome di tutti. “Padre Zeus, sommo e glorioso, e tu, Sole, che tutto vedi e tutto ascolti: Fiumi, Terra e voi, che sottoterra punite i traditori, siateci testimoni e custodite i nostri patti: se Paride ucciderà Menelao, si terrà Elena e tutti i suoi beni e noi ce ne andremo per sempre sulle navi che solcano il mare; e se invece Menelao ucciderà Paride, i Troiani ci renderanno Elena con tutti i suoi beni, e pagheranno agli Argivi un prezzo così alto che sarà ricordato per generazioni e generazioni. E se Priamo e i suoi figli non vorranno pagare, io mi batterò per avere quel compenso, e rimarrò qui, fino a quando questa guerra non avrà fine.” Così pregò, e poi con un colpo sicuro sgozzò gli agnelli e li depose a terra, palpitanti, morenti. Tutti i principi bevvero alla grande coppa di vino, e tutti pregarono i loro dei. E dicevano tra loro “Se qualcuno mai oserà violare i patti, che Zeus versi il suo cervello e quello dei suoi figli come noi versiamo questo vino!”. Quando tutto fu compiuto, Priamo, il vecchio re, il vecchio padre, salì sul carro, al fianco di Antènore, e disse ai Troiani e agli Achei: “Lasciatemi tornare nella mia città, battuta dai venti. Perché non ho cuore di vedere mio figlio Paride battersi, qui, con il feroce Menelao”. Spronò i cavalli, lui stesso, e se ne andò via.

Poi, fu il duello. Ettore e Ulisse disegnarono per terra il campo su cui i duellanti avrebbero combattuto. Poi misero in un elmo le tessere della fortuna, e dopo averle scosse, Ulisse, senza guardare, estrasse il nome di chi avrebbe avuto  diritto a scagliare per primo la lancia mortale. E la sorte scelse Paride. I guerrieri si sedettero tutt’intorno. Vidi Paride, il mio nuovo sposo, indossare le armi: prima le belle gambiere, allacciate con fibbie d’argento; poi la corazza, sul petto; e la spada di bronzo, borchiata d’argento e lo scudo, grande e pesante. Si pose sul capo lo splendido elmo: la lunga criniera ondeggiava al vento e faceva paura. Infine prese la lancia, e la strinse in pugno. Di fronte a lui, Menelao, il mio vecchio sposo, finì di indossare le sue armi. Sotto gli occhi dei due eserciti, avanzarono uno verso l’altro, guardandosi con ferocia. Poi si fermarono. E il duello iniziò. Vidi Paride scagliare la sua lunga lancia. Con violenza si conficcò nello scudo di Menelao, ma il bronzo non si squarciò, e la lancia si ruppe e cadde a terra. Allora Menelao sollevò a sua volta la lancia e la scagliò con forza enorme contro Paride. Centrò in pieno lo scudo e la punta mortale lo squarciò, e andò a infilarsi nella corazza colpendo di striscio Paride, al fianco. Menelao estrasse la spada e gli balzò addosso. Lo colpì con violenza sull’elmo, ma la spada si spezzò. Lui imprecò contro gli dei e poi con un balzo afferrò Paride dalla testa, stringendo tra le mani lo splendido elmo chiomato. E iniziò a trascinarlo via così, verso gli Achei. Paride sdraiato, nella polvere, e lui a stringergli l’elmo in una morsa micidiale e a trascinarlo via. Finché la cinghia di cuoio che teneva fermo l’elmo sotto il mento si ruppe, e Menelao si trovò in mano l’elmo, vuoto. Lo alzò al cielo, si voltò verso gli Achei e roteandolo in aria lo gettò in mezzo ai guerrieri. Quando si voltò di nuovo verso Paride, per finirlo, si accorse che era scappato, scomparendo tra le file dei Troiani.
Fu in quel momento che quella donna sfiorò il mio velo e mi parlò. Era una vecchia filatrice, era venuta con me da Sparta, mi cuciva splendide vesti, laggiù. Mi voleva bene, e io avevo paura di lei. Quel giorno, lassù, sul torrione delle porte Scee si avvicinò e a bassa voce mi disse “Vieni, Paride ti aspetta nel suo letto, si è messo le vesti più belle, più che da un duello sembra tornato da una festa”. Io rimasi allibita. “Sciagurata”, le dissi, “Perché vuoi tentarmi? Saresti capace di portarmi anche in capo al mondo, se là ci fosse un uomo che ti è caro. Adesso, perché Menelao ha sconfitto Paride, e vuole riportarmi a casa, vieni da me a tramare inganni... Vacci tu, da Paride, perché non lo sposi, o magari diventi la sua schiava? Io non ci andrò, sarebbe indegno. Tutte le donne di Troia proverebbero vergogna per me. Lasciami stare qui, con il mio dolore.” Allora la vecchia donna mi guardò furente. “Sta’ attenta”, mi disse, “E non farmi arrabbiare. Potrei abbandonarti qui, lo sai, e seminare odio ovunque, fino a quando non ti troveresti a morire di mala morte.” Mi faceva paura, l’ho detto. I vecchi, spesso, fanno paura. Mi strinsi sul capo il velo bianco splendente e la seguii. Stavano tutti guardando giù, verso la piana. Nessuno mi vide. Andai nelle stanze di Paride e lo trovai là. Una donna che l’amava l’aveva fatto entrare a Troia, da una porta segreta, e l’aveva salvato. La vecchia prese un sedile e lo mise proprio davanti a lui. Poi mi disse di sedermi. Io lo feci. Non riuscivo a guardarlo negli occhi. Ma gli dissi: “Così sei scappato dalla battaglia. Vorrei che tu fossi morto là, ucciso da quel guerriero magnifico che è stato io mio primo marito. Tu che ti vantavi di essere più forte di lui... Dovresti tornare là, e sfidarlo ancora, ma sai benissimo che sarebbe la tua fine”. E mi ricordo che Paride, allora, mi chiese di non fargli del male con le mie offese crudeli. Mi disse che Menelao aveva vinto, quel giorno, perché gli dei erano stati dalla sua parte, ma che magari la prossima volta a vincere sarebbe stato lui, perché anche lui aveva degli dei amici. E poi mi disse: vieni qui, facciamo l’amore. Mi chiese se mi ricordavo la prima volta che l’avevamo fatto, sull’isola di Crànae, proprio il giorno dopo che mi aveva rapita. E mi disse: neanche quel giorno io ti ho desiderata tanto come ti desidero adesso. Poi si alzò e andò verso il letto. E io lo seguii.
Lui era l’uomo che in quel momento tutti, laggiù nella pianura, stavano cercando. Era l’uomo che nessuno, né Acheo né Troiano, avrebbe aiutato o nascosto, quel giorno. Era l’uomo che tutti odiavano, come si odia la nera dea della morte.