lunedì 23 aprile 2012

Tre libri

Ho letto un libro che sembra uscito direttamente dalla mia pelle.

S'intitola Il libraio, e subito pensavo ad una di quelle tante storie pseudo-nostalgiche, con personaggi stereotipati, il "piacere della lettura" trattato con superficialità, con una scrittura piatta e paradossalmente tronfia e demodé.
No, questo non è per niente così.

L'autore si chiama Régis de Sà Moreira, ed è uno di quelli che mi piacerebbe incontrare.
Ha un modo di mettere le parole che le rende subito vicine, piccole e vive.
Nutre la storia di dettagli deliziosi, mescola i pensieri con le vibrazioni e lo fa senza affaticare.

Questo libro vi accompagni come un abbraccio.
Vi tenga al caldo delle sue pagine, e vi regali quel po' di conforto di cui abbiamo sempre - infinitamente - bisogno.



                Il libraio detestava la volgarità ma non aveva nulla contro la grossolanità, anche se non vi faceva mai ricorso.
                Non mandava nemmeno a quel paese i clienti maleducati. Uno di loro si avvicinò al banco e domandò maleducatamente al libraio quali fossero i tre libri da portare su un’isola deserta.
                Il libraio lo guardò stupito e gli rispose che non era sicuro di sapere di quali libri stesse parlando.
                Il cliente s’innervosì, gli disse che tutti gli parlavano di quei tre “fottutissimi libri” da portare su un’isola deserta, e gli fece capire che, se non lo sapeva, non ci faceva nulla (“un cazzo” furono le sue parole) in una libreria.
                «È una scelta molto personale...» disse il libraio.
                «Personale una sega!» disse il cliente.
                Il libraio sorrise per incoraggiarlo.
                «Che cazzo ci vado a fare in quella fottutissima isola senza quei tre libri di merda?»
                «Ah...» disse il libraio «temo proprio che qui non li troverà.»
                «Che cazzata!» concluse il cliente prima di girare i tacchi e partire senza nemmeno dire arrivederci.
                Il libraio lo lasciò andare senza fare più caso a quel piccolo incidente, ma mentre si preparava una tisana alle ortiche, iniziò a porsi qualche domanda.
                Quali erano i tre libri da portare su un’isola deserta?
                O almeno, quali erano i tre libri che lui, il libraio, avrebbe portato su un’isola deserta?
                Iniziò ad angosciarsi.
                Girò in tondo sulla scala a chiocciola sino a ritrovarsi giù e iniziò a passare in rassegna tutti i libri.
                “Tre libri” pensò il libraio.
                Scorse i ripiani, si fermò al primo scaffale, prese un libro, continuò, ne prese un altro, aggrottò le sopracciglia, continuò, ne prese un terzo, si disse che era solo una prima cernita e che poi avrebbe fatto un’ulteriore selezione, continuò, prese altri libri...

                Una mezz’ora dopo, il libraio si trovò davanti a tutti i libri che aveva impilato con lo scopo di tenerne solo tre e sospirò.
                Non aveva finito nemmeno la prima selezione che il numero di libri presi dagli scaffali superava già il numero di quelli che vi restavano.
                Prese il coraggio a due mani e fece un nuovo tentativo.
                «Tre libri,» mugugnò il libraio, «tre libri... Perché non due? O quattro? O zero... o mille? Soltanto tre libri.»
                Tre, ecco. E nessuno sapeva perché.
                Il libraio maledisse la persona che aveva avuto quell’idea. Il primo ad aver posto quella domanda. Perché dovevano pur venire da qualche parte, quelle frasi, tutte quelle idee! Erano certamente partite da un caso particolare. Se il libraio avesse potuto avere in quel momento nella sua libreria l’incosciente che aveva messo a punto il problema dei tre libri, gli avrebbe spiegato il suo modo di vedere le cose. E poi, soprattutto, gli avrebbe chiesto quale fosse la sua risposta. Si sarebbe messo in ginocchio davanti all’uomo o alla donna e avrebbe scongiurato lui o lei di dargli i titoli dei tre libri.
                Poi il libraio iniziò a portare rancore verso il cliente maleducato che gli aveva messo in testa quell’idea. Non poteva sceglierli da solo, i tre libri? Del resto, era qualcosa di molto personale.
                Il libraio ebbe il sospetto che il cliente maleducato si fosse ritrovato in quella stessa imbarazzante situazione e si fosse affidato a lui per questo motivo. Del resto, il libraio era il libraio, ed era del tutto normale rivolgersi a lui per la scelta dei libri.
                Ma quali libri?
                «Tre libri...» ripeté il libraio.
                Non due, non quattro, non zero, non mille.
                Il libraio continuò a pensare ai tre libri, a quei tre “cazzo di libri”.
                E ci pensò così intensamente che credette di essere sul punto di partire per un’isola deserta.

                Ma la scelta divenne ancora più terribile.
                Come se ne andasse della sua stessa vita.
                Il libraio gridò.
                Un cliente sussultò a gridò anche lui.
                «Mi scusi» disse il libraio.
                Il cliente lo guardò stupito e preferì andarsene.
                Il libraio si calmò.
                Si ricordò che non stava per partire per un’isola deserta, che non doveva scegliere i tre libri e che non poteva farsi carico di tutti i problemi del mondo.
                “E poi,” si disse il libraio pensando un’ultima volta al cliente maleducato, “troverà di sicuro una libreria, sull’isola.”

                Alla fine il libraio si sedette su una pila di libri e ne prese uno a caso da una delle altre pile.
                Iniziò a leggere, iniziò a sorridere, e i tre libri, come tre ombre nell’animo del libraio, svanirono.
                Li dimenticò completamente e continuò a leggere.

martedì 3 aprile 2012

Andar(sen)e


Ci sono dei momenti nella vita in cui ti capita qualcosa.
Poi apri il libro che stai leggendo, e te la ritrovi lì, stampata, davanti.
Fa un po' i brividi, a pensarci, ma con questo pezzo mi è successo proprio così.
Dal libro Le vie dei canti, Bruce Chatwin cerca il modo di raccontare quello che spinge l'uomo a lasciarsi qualcosa alle spalle per cercare un altro qualcosa che non sa ancora.

Qui sotto ci sono due uomini.
Non si conoscono, ma non è importante.

Guardate come tutto - sempre - si muove.



                Chiusi il libro di scatto. Le poltrone di pelle della London Library mi avevano fatto venire un gran sonno. L’uomo seduto accanto a me stava russando con una rivista letteraria distesa sullo stomaco. Al diavolo le migrazioni! mi dissi. Posai la pila di libri sul tavolo. Avevo una gran fame.
                Era dicembre, fuori faceva freddo e c’era il sole. Speravo di scroccare il pranzo a un amico. Stavo camminando in St. James Street quando, all’altezza del White’s Club, scese da un taxi un uomo con un capotto dal colletto di velluto. Con gesto magnanimo diede due banconote al taxista e si diresse verso gli scalini. Aveva folti capelli grigi e un reticolo di capillari rotti, come se sopra le sue guance fosse stesa una calza di nailon rossa. Lo avevo visto in fotografia: era un duca.
                Nello stesso istante un altro uomo, con un pastrano da reduce, senza calze e con le scarpe legate con lo spago, arrivò in fretta con un sorriso accattivante.
                «Ehm... Scusi se la disturbo, Sir» disse con spiccato accento irlandese. «Ma forse lei potrebbe...».
                Il duca si affrettò a entrare.
                Guardai il barbone, e lui mi guardò con aria d’intesa. Sul suo cuoio capelluto chiazzato galleggiavano ciuffi di capelli rossicci. Aveva occhi lacrimosi, imploranti fiducia, leggermente strabici. Doveva aver passato i sessant’anni da un pezzo. Dal mio aspetto giudicò che non valesse la pena accampare delle pretese sul mio portafogli.
                «Ho un’idea» gli dissi.
                «Dica, eccellenza».
                «Lei viaggia, vero?».
                «In tutto il mondo, eccellenza».
                «Be’, se ha voglia di raccontarmi i suoi viaggi, le offro con piacere il pranzo».
                «E io accetto volentieri».
                Andammo dietro l’angolo, in un ristorante italiano di Jermyn Street affollato ed economico. C’era un tavolino libero.
                Non lo invitai a togliersi il pastrano per paura di quello che c’era sotto. Due eleganti segretarie si scostarono da noi, rimboccandosi la gonna sotto le gambe come se si aspettassero un’invasione di pulci.
                «Che cosa prende?» domandai.
                «Ehm... lei cosa prende?»
                «Su, » dissi «ordini quello che vuole».
                Tenendo il menu capovolto, lo esaminò con la disinvoltura di un cliente abituale che si sente in dovere di controllare il plat du jour.
                «Bistecca con patatine!» esclamò.
                La cameriera smise di masticare il fondo della matita e indirizzò alle segretarie un’occhiata torturata.
                «Filetto o lombata?» domandò.
                «Fa lo stesso» rispose lui.
                «Due lombate» dissi io. «Una normale, una un po’ al sangue».
                Lui spense la sete con una birra, ma il pensiero del cibo gli ipnotizzava la mente; agli angoli della bocca gli comparvero delle goccioline di saliva. Sapevo che i barboni hanno metodi sistematici di frugar la spazzatura e ritornano spesso a un gruppo preferito di pattumiere. Come si regolava, gli domandai, con i club di Londra?
                Ci pensò su un momento e poi disse che il meglio era sempre l’Athenaeum. Tra i suoi membri c’erano ancora dei religiosi.
                «» rimuginò. «Di solito si riesce a spillare uno scellino a un Vescovo».
                Subito dopo, ai vecchi tempi, veniva il Traveller’s. Quei signori, come lui, avevano visto il mondo.
                «Un incontro di anime, si potrebbe dire» continuò. «Ma adesso... no, no».
                Il Traveller’s non era più quello di un tempo. Era subentrata un’altra categoria di persone.
                «Pubblicitari» disse cupamente. «Molto taccagni, mi creda».
                Aggiunse che il Brooks’s, il Boodle’s e il White’s erano ormai tutti della stessa risma. Ad alto rischio! O grande generosità... o niente!
                L’arrivo  della bistecca inibì completamente la sua capacità di conversazione. La attaccò con sorda ferocia, sollevò il piatto alla bocca, leccò il sugo e poi, ricordandosi dov’era, lo posò di nuovo sul tavolo.
                «Ne vuole un’altra?» domandai.
                «Non dico di no, eccellenza» rispose. «Molto cortese da parte sua».
                Ordinai una seconda bistecca, e lui si lanciò nella storia della sua vita. Ne valeva la pena. Il racconto, quando prese forma, era esattamente ciò che volevo sentire: il piccolo podere nella contea di Galway, la morte della madre, Liverpool, l’Atlantico, i mattatoi di Chicago, l’Australia, la Depressione, le isole dei mari del sud...
                «Oooh! Quello è il posto per lei, ragazzo mio! Tahiti! Vahine!».
                Si passò la lingua sul labbro inferiore.
                «Vahine!» ripeté. «Così chiamano le donne laggiù... Oooh! Che meraviglia! L’ho fatto in piedi sotto una cascata!».
                Le segretarie chiesero il conto e uscirono. Alzai gli occhi e vidi le mascelle squadrate del capo cameriere e il suo sguardo ostile. Temetti che ci buttassero fuori.
                «C’è un’altra cosa che vorrei sapere».
                «Dica, eccellenza, sono tutt’orecchi».
                «Ritornerebbe in Irlanda?».
                «No». Chiuse gli occhi. «No, non ne avrei voglia. Troppi brutti ricordi».
                «Ma c’è un luogo che considera “casa sua”?».
                «Certo che sì». Rovesciò la testa all’indietro e rise. «La Promenade des Anglais, a Nizza. Mai sentita ?».
                «» risposi.
                Una notte d’estate, sulla Promenade, aveva attaccato discorso con un facondo signore francese. Per un’ora avevano parlato, in inglese, della situazione mondiale. Poi il signore aveva estratto dal portafoglio un biglietto da 10.000 franchi - «Vecchi franchi, sa!» -, e dopo avergli dato il suo biglietto da visita gli aveva augurato un piacevole soggiorno.
                «Porca miseria!» gridò. «Era il capo della polizia... a Nizza!».
                Adesso il ristorante era meno affollato. Gli ordinai una doppia porzione di torta di mele. Non volle il caffè; non lo digeriva, disse. Poi ruttò e io pagai.
                «Grazie, Sir» disse con l’aria di un intervistato che ha una sfilza di impegni pomeridiani. «Spero di esserle stato utile».
                «Altroché» lo ringraziai.
                Si alzò in piedi, ma si sedette di nuovo e mi fissò con aria intenta. Dopo aver parlato delle circostanze esterne della sua vita, non voleva andarsene senza un commento sulle sue motivazioni interiori.
                Allora, lentamente e con grande serietà, disse:
                «È come se ti trascinasse la corrente. Io sono come la sterna artica, eccellenza. È un uccello, un bell’uccello bianco che dal Polo Nord vola al Polo Sud e poi torna indietro».