martedì 31 gennaio 2012

Divagazioni

Appoggio qui un meraviglioso esempio di prosa poetica.
L'autore è Stéphane Mallarmé e il pezzettino s'intitola Il fenomeno futuro.
Mi sono imbattuta in Mallarmé, e si dovrebbe dire forse che mi sono scontrata.
Le sue poesie mi respingono per la loro estrema chiusura, mi impongono un disagio d'inadeguatezza, ma allo stesso tempo mi colorano gli occhi con immagini che difficilmente dimenticherò.

E' una strana creatura.

Le prose, invece, sono diverse.
Hanno tutto il potenziale immaginativo, ma si lasciano alle spalle l'ermetismo emarginante.
Ed è per questo che ho deciso di condividere con voi questo frammento.
Leggetelo prima senza pensare.
Scorrete tra le parole e ascoltatene il suono, la cadenza, i silenzi.
Poi leggetelo per capire.
Solo alla fine, chiudete gli occhi.



Un cielo pallido, sul mondo che finisce di decrepitezza, sta forse per sparire con le nubi: i brandelli della porpora consunta dei tramonti stingono in un fiume dormiente all’orizzonte sommerso di raggi e d’acqua. Gli alberi si annoiano e, sotto il loro fogliame sbiancato (più dalla polvere del tempo che dei sentieri), cresce la casa di tela del Presentatore di cose Passate: infiniti lampioni attendono il crepuscolo e ravvivano i volti di un’infelice folla, vinta dalla malattia immortale e dal peccato dei secoli, di uomini accanto alle loro gracili complici incinte dei frutti miserabili con i quali perirà la terra. Nel silenzio inquieto di tutti gli occhi supplicanti laggiù il sole che, nell’acqua, affonda con la disperazione di un grido, ecco il semplice imbonimento: «Nessuna insegna vi offre lo spettacolo dell’interno, ché non esiste oggi un pittore capace di darne un’ombra triste. Io porto, viva (e preservata attraverso gli anni da una scienza sovrana) una Donna d’altri tempi. Una follia, originaria e ingenua, un’estasi d’oro, un non so che! da lei chiamata chioma, scende con la grazia delle stoffe attorno a un viso che rischiara la nudità sanguigna delle labbra. Al posto dell’abito vano ella ha un corpo; e gli occhi, simili alle pietre rare, non valgono lo sguardo che scaturisce dalla sua carne felice: seni alti come se fossero pieni di un latte eterno, la punta verso il cielo, le gambe lisce che conservano il sale del mare primigenio». Ricordando le loro povere spose, calve, malsane e piene d’orrore, i mariti si affollano: anch’esse per curiosità, malinconiche, vogliono vedere.
Quando tutti avranno contemplato la nobile creatura, vestigia di qualche epoca già maledetta, gli uni indifferenti, infatti non avranno avuto la forza di capire, ma altri straziati e la palpebra umida di lacrime rassegnate si guarderanno; mentre i poeti di questi tempi, sentendo riaccendersi i loro occhi spenti, si incammineranno verso la loro lampada, il cervello ebbro per un istante di una gloria confusa, assillati dal Ritmo e nell’oblio di esistere in un’epoca che sopravvive alla bellezza.


mercoledì 25 gennaio 2012

Il mare più da vicino

Lo aveva scritto anche Maugham, in La luna e sei soldi: ci sono persone che vivono senza farsi domande. Portano avanti quello che hanno costruito e non alzano gli occhi.
Poi un giorno succede qualcosa. Partono.
E il posto in cui arrivano gli risveglia dentro un qualcosa che li incendia di passione, vedono il colore e improvvisamente capiscono.
Un'epifania li risveglia dal torpore e il luogo che hanno scoperto diventa salvezza e irrinunciabile desiderio.
Questo pezzetto di Camus racconta qualcosa di simile.
Ci sono dentro nostalgia e speranza.
Ma soprattutto
un uomo e il suo mare.


 
Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile. Da allora aspetto. Aspetto le navi del ritorno, la casa delle acque, il giorno limpido. Paziento, cerco con tutte le forze di essere gentile. Mi si deve passare per belle strade dotte, ammiro i paesaggi, applaudo come tutti, porgo la mano, non sono io che parlo. Mi lodano, sto un po’ soprappensiero, mi offendono, mi stupisco un po’. Poi dimentico e sorrido a chi mi oltraggia, o saluto troppo cortesemente chi amo. Che posso farci se ho memoria per una sola immagine? Finalmente mi ingiungono  di dire chi sono. «Niente ancora, niente...»
                Ai funerali supero me stesso. Eccello veramente. Cammino a passo lento in periferie fiorite di ferri vecchi, m’inoltro in larghi viali costeggiati da alberi di cemento che conducono a dei buchi di terra fredda. Là, sotto la fascia del cielo appena rossa, guardo degli arzilli individui inumare i miei amici a tre metri di profondità. E se getto il fiore che una mano terrosa allora mi tende, non sbaglio mai la fossa. Ho la pietà precisa, l’emozione esatta, la nuca opportunamente inclinata. La giustezza delle mie parole viene ammirata. Ma non ho merito: aspetto.
                Aspetto a lungo. A volte faccio un passo falso, perdo la mano, la buona riuscita mi sfugge. Non importa, allora sono solo. Di notte mi sveglio e, mezzo addormentato, mi par di sentire un rumore d’onde, il respiro delle acque. Quando mi sveglio del tutto, riconosco il vento tra le foglie e l’infelice rumore della città deserta. In seguito, tutta la mia arte non mi è di troppo per nascondere l’affanno o vestirlo alla moda.
                Altre volte ne ricevo aiuto. Certi giorni, a New York, perduto in fondo a quei pozzi di pietra e di acciaio dove errano milioni di uomini, correvo da uno all’altro, senza vederne la fine, sfinito, fino a che non fossi più sostenuto che dalla massa umana che cercava un’uscita. Soffocavo, stavo per gridare dal panico. Ma ogni volta un richiamo lontano di un rimorchiatore veniva a ricordarmi che quella città, cisterna asciutta, era un’isola, e che all’estremo della Battery mi aspettava l’acqua del mio battesimo, nera e putrida, coperta di sugheri vuoti.
                Così io che non possiedo nulla, che ho donato la mia fortuna, che sto accampato vicino a tutte le mie case, sono tuttavia soddisfatto quando voglio, la disperazione non mi conosce. Non c’è patria per il disperato e io so che il mare mi precede e mi segue, ho una follia sempre pronta. Coloro che si amano e sono separati possono vivere nel dolore, ma non è disperazione: essi sanno che l’amore esiste. Ecco perché io soffro dell’esilio con occhi asciutti. Aspetto ancora.
Verrà un giorno finalmente...

sabato 7 gennaio 2012

Prosa di vacanze

Ammaliata e avvolta da questa prosa, sfumo i miei pensieri con le sue parole.
Confondo i ragionamenti mescolandoli al ritmo e ai respiri dell'onda, e non serve aprire gli occhi per vedere.
Pessoa sa intrecciare i pensieri sulla penna, e in questa Prosa di vacanze fa riecheggiare nel silenzio il turbinare indistinto della vita che passa.
A voi.


                La piccola spiaggia che formava una baia piccolissima, esclusa dal mondo da due promontori in miniatura, era, in quella vacanza di tre giorni, il mio rifugio da me stesso. Si scendeva alla spiaggia attraverso una scalinata tozza che cominciava con degli scalini di legno e a mezzo aveva dei gradini ritagliati nella roccia, con un corrimano di ferro arrugginito. E ogni volta che scendevo la scalinata soprattutto dai gradini di pietra ai piedi [?] fino in fondo, uscivo dalla mia stessa esistenza, e mi trovavo.
                Affermano gli occultisti, o alcuni di essi, che esistono momenti supremi dell’anima in cui essa ricorda, attraverso l’emozione o attraverso parte della memoria, un momento o un aspetto o un’ombra di un’anteriore incarnazione. E in quei momenti, tornando a un tempo che è più vicino all’origine e all’inizio delle cose e del suo presente, essa prova in qualche modo un’infanzia e una liberazione.
                Si sarebbe detto che nello scendere quella gradinata, ora fuori uso, e nell’entrare lentamente nella piccola spiaggia sempre deserta, io utilizzavo un procedimento magico per trovarmi più vicino alla possibile monade che sono. Alcuni modi e aspetti della mia vita quotidiana (rappresentati del mio essere costante da desideri, idiosincrasie, preoccupazioni), si allontanavano da me come i fuggiaschi sfuggono la ronda, si mimetizzavano nelle ombre fino a che non si capiva cos’erano; e io raggiungevo uno stato di distanza intima nella quale diventava difficile per me ricordarmi di ieri o riconoscere come mio l’essere che è vivo in me ogni giorno. Le mie emozioni di sempre, le mie abitudini regolarmente irregolari, i miei dialoghi con gli altri, i miei adattamenti al consorzio umano: tutto ciò mi sembrava una cosa letta chissà dove, pagine inerti di una biografia stampata, dettagli di un romanzo qualsiasi di certi capitoli intermedi che si leggono pensando ad altro, e il filo della narrativa si sgomitola per terra come un serpe.
                Allora, nella spiaggia il cui unico rumore erano le onde o il vento che passava alto come un grande aeroplano inesistente, mi abbandonavo a un nuovo tipo di sogni: cose informi e soavi, meraviglie dell’impressione profonda, senza immagini, senza emozioni, pulite come il cielo e le acque, che vibravano come i flutti di un mare che si erge dal fondo di una grande verità; tremulamente, di un obliquo azzurro in lontananza che nell’avvicinarsi diventa verde con trasparenze di altri toni verde-sporchi, e dopo aver  infranto stridendo le mille braccia sfatte e averle allungate in sabbia bruna e spuma sbavata, congregando in sé tutte le risacche, i ritorni alla libertà dell’origine, la divina nostalgia, le memorie, come questa che senza forma non mi duoleva: nostalgia di uno stato anteriore, felice perché buono o per qualcos’altro, un corpo di nostalgia con anima di spuma, il riposo, la morte, il tutto o il niente che come un grande mare circonda l’isola di naufraghi che è la vita.
                E io dormivo senza sonno, ormai lontano da ciò che sentendo vedevo, crepuscolo di me stesso, rumore di acqua fra gli alberi, quiete dei grandi fiumi, freschezza delle sere tristi, lento palpitare del petto bianco del sonno infantile della contemplazione.