sabato 7 gennaio 2012

Prosa di vacanze

Ammaliata e avvolta da questa prosa, sfumo i miei pensieri con le sue parole.
Confondo i ragionamenti mescolandoli al ritmo e ai respiri dell'onda, e non serve aprire gli occhi per vedere.
Pessoa sa intrecciare i pensieri sulla penna, e in questa Prosa di vacanze fa riecheggiare nel silenzio il turbinare indistinto della vita che passa.
A voi.


                La piccola spiaggia che formava una baia piccolissima, esclusa dal mondo da due promontori in miniatura, era, in quella vacanza di tre giorni, il mio rifugio da me stesso. Si scendeva alla spiaggia attraverso una scalinata tozza che cominciava con degli scalini di legno e a mezzo aveva dei gradini ritagliati nella roccia, con un corrimano di ferro arrugginito. E ogni volta che scendevo la scalinata soprattutto dai gradini di pietra ai piedi [?] fino in fondo, uscivo dalla mia stessa esistenza, e mi trovavo.
                Affermano gli occultisti, o alcuni di essi, che esistono momenti supremi dell’anima in cui essa ricorda, attraverso l’emozione o attraverso parte della memoria, un momento o un aspetto o un’ombra di un’anteriore incarnazione. E in quei momenti, tornando a un tempo che è più vicino all’origine e all’inizio delle cose e del suo presente, essa prova in qualche modo un’infanzia e una liberazione.
                Si sarebbe detto che nello scendere quella gradinata, ora fuori uso, e nell’entrare lentamente nella piccola spiaggia sempre deserta, io utilizzavo un procedimento magico per trovarmi più vicino alla possibile monade che sono. Alcuni modi e aspetti della mia vita quotidiana (rappresentati del mio essere costante da desideri, idiosincrasie, preoccupazioni), si allontanavano da me come i fuggiaschi sfuggono la ronda, si mimetizzavano nelle ombre fino a che non si capiva cos’erano; e io raggiungevo uno stato di distanza intima nella quale diventava difficile per me ricordarmi di ieri o riconoscere come mio l’essere che è vivo in me ogni giorno. Le mie emozioni di sempre, le mie abitudini regolarmente irregolari, i miei dialoghi con gli altri, i miei adattamenti al consorzio umano: tutto ciò mi sembrava una cosa letta chissà dove, pagine inerti di una biografia stampata, dettagli di un romanzo qualsiasi di certi capitoli intermedi che si leggono pensando ad altro, e il filo della narrativa si sgomitola per terra come un serpe.
                Allora, nella spiaggia il cui unico rumore erano le onde o il vento che passava alto come un grande aeroplano inesistente, mi abbandonavo a un nuovo tipo di sogni: cose informi e soavi, meraviglie dell’impressione profonda, senza immagini, senza emozioni, pulite come il cielo e le acque, che vibravano come i flutti di un mare che si erge dal fondo di una grande verità; tremulamente, di un obliquo azzurro in lontananza che nell’avvicinarsi diventa verde con trasparenze di altri toni verde-sporchi, e dopo aver  infranto stridendo le mille braccia sfatte e averle allungate in sabbia bruna e spuma sbavata, congregando in sé tutte le risacche, i ritorni alla libertà dell’origine, la divina nostalgia, le memorie, come questa che senza forma non mi duoleva: nostalgia di uno stato anteriore, felice perché buono o per qualcos’altro, un corpo di nostalgia con anima di spuma, il riposo, la morte, il tutto o il niente che come un grande mare circonda l’isola di naufraghi che è la vita.
                E io dormivo senza sonno, ormai lontano da ciò che sentendo vedevo, crepuscolo di me stesso, rumore di acqua fra gli alberi, quiete dei grandi fiumi, freschezza delle sere tristi, lento palpitare del petto bianco del sonno infantile della contemplazione.

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