martedì 28 giugno 2011

Quel che si dissero Don Chisciotte e il suo scudiero, ed altri famosissimi avvenimenti

Questo è un pezzo che va letto con spumeggiante allegrezza, tratto dal secondo libro di Don Chisciotte, di Miguel de Cervantes.
Questa storia mi ha accompagnata per molto tempo.
Riposava il librone sul comodino, e quando lo riprendevo in mano mi accompagnava in questo mondo coinvolgente e spezzettato.
Ho amato Don Chisciotte, la sua figura scavata e il portamento dignitoso.
Ho amato la scrittura saltellante di Cervantes, magistralmente incatenata e variopinta, incredibilmente circolare e precisa.
Ho amato queste pagine di un amore spensierato e ammirato.

Quello che vi propongo non è che un assaggio.
Ma va gustato con molta attenzione e gran godimento.


Quel che si dissero Don Chisciotte e il suo scudiero, ed altri famosissimi avvenimenti.

Appena la governante vide che il suo padrone si serrava in camera con Sancio Panza, s’immaginò di quel che si trattava; e, pensando che dal quel consiglio doveva uscire la deliberazione della terza sortita, prese la mantiglia, e in preda a una angoscia penosa andò a cercare il baccelliere Sansone Carrasco, perché le parve che, essendo un bel parlatore e amico di fresco del suo padrone, avrebbe potuto persuaderlo ad abbandonare un proposito così insensato. Lo trovò che passeggiava su e giù pel cortile di casa sua, e appena lo vide, si lasciò cadere ai suoi piedi, ansante e desolata.
                - Che affare è questo, signora governante? - esclamò Carrasco quando la vide così disperata e tutta sottosopra. - Che le è successo, ch’e’ pare che le vogliano strappar l’anima di corpo?
                - Nient’altro che questo, signor Sansone mio, che il padrone va via, creda, va via.
                - Va via?! E di dove va via, signora? - domandò Sansone. - S’è rotto forse in qualche punto?
                - Va via di cervello! Voglio dire, mio caro signor baccelliere, che vuole andar via un’altra volta, e sarà la terza, a cercare pel mondo quelle che egli chiama venture, e che io non so capire come le possa chiamar così. La prima volta ce lo riportarono disteso a traverso su un ciuco e tutto pesto dalle legnate; la seconda tornò su un carro da buoi chiuso, in una gabbia, dove credeva di trovarsi per incantesimo; ed era così avvilito, che non lo avrebbe riconosciuto la mamma che lo partorì: secco, giallo, con gli occhi infossati in fondo in fondo alle occhiaie, che per tirarlo su un po’ ho consumato più di seicento uova, come lo sa Iddio e tutti quanti e le mie galline che non mi faranno bugiarda.
                - Oh, lo credo, lo credo! - rispose il baccelliere. - Son così buone, così grasse e così bene educate le sue galline, che non direbbero una cosa per un’altra a costo di schiantare. Ma dunque, signora governante, non c’è proprio altro? Non è successo altro male che questa temuta fuga del signor Don Chisciotte?
                - No, signore; non è successo altro - rispose lei.
                - Allora, non stia in pensiero per questo - rispose il baccelliere - ma torni a casa tranquilla, mi prepari qualche cosina di caldo per far colazione, e via facendo reciti l’orazione di Santa Apollonia, se la sa; ché ora io verrò laggiù, e le farò veder meraviglie.
                - Oh povera me! - replicò la governante - l’orazione di Santa Apollonia devo recitare? Sarebbe buona se il mio padrone avesse mal di denti, ma se ha male al cervello!
                - Io so quel che dico, signora governante; vada pure, e non si metta a discuter con me, perché lei sa bene che io son baccelliere di Salamanca e più là c’è il muro - rispose Carrasco.
                La governante se n’andò, e il baccelliere si recò subito a cercare il curato per discorrere con lui di quel che si dirà a suo tempo.
                Mentre Don Chisciotte e Sancio stettero serrati in camera, si svolse fra loro un dialogo che la storia riporta con molta esattezza e scrupolosa fedeltà. Disse Sancio al suo padrone:
                - Signor padrone, la mi’ moglie l’ho bell’e incotta a lasciarmi venir via con lei dove la mi vorrà portare.
                - Indotta, vuoi dire, Sancio, e non incotta.
                - Gliel’ho già detto un altro par di volte, se ben mi ricordo - disse Sancio - che mi faccia il piacere di non mi corregger le parole, quando capisce quel che voglio dire. E quando non capisce, dica: «Sancio» oppure: «Diavolo, non ti capisco». E se io non riesco a farmi intendere, allora sì mi corregga, perché io son molto fòcile.
                - Non ti capisco, Sancio - disse subito Don Chisciotte - poiché non so quel che vuol dire «son molto fòcile».
                - Molto fòcile vuol dire che son molto... così.
                - Ora t’intendo meno che mai - replicò Don Chisciotte.
                - Se non riesce a capirmi - rispose Sancio - io non so come dirlo; non so altro, e Dio m’assista.
                - Ah! ora ho capito - replicò Don Chisciotte - tu vuoi dire che sei molto docile, remissivo, arrendevole, e che tu accetterai quello ch’io ti dirò e farai ciò che t’insegnerò.
                - Scommetterei - disse Sancio - che fin dal principio lei m’ha capito benissimo, vede; ma l’ha fatto apposta per imbrogliarmi e farmi dire altri duecento sfarfallotti.
                - Può anche essere - replicò Don Chisciotte - ma in sostanza che dice dunque Teresa?
                - La Teresa la dice che m’intenda bene con Vossignoria; che carta canta e villan dorme, perché patti chiari amici cari, e costa più un piglia che due ti darò. Io poi aggiungo che consiglio di donna poco vale, ma chi non lo segue fa male.
                - Lo dico anch’io - rispose Don Chisciotte. - Dite, dite, caro Sancio, andate pure avanti; ché oggi parlate a meraviglia.
                - Il fatto è - replicò Sancio - che come lei sa benissimo, noi siamo tutti soggetti alla morte, e che oggi ci siamo, domattina no; e, per morire, agnello o montone, tutte l’ore son buone; e nessuno in questo mondo può ripromettersi più ore di vita di quelle che Dio vuol dargli, perché la morte è sorda, e quando arriva a bussare alla porta della nostra vita, l’ha sempre furia, e non valgono a rattenerla né preghiere, né forze, né scettri, né mitrie, come è voce e fama pubblica e come sempre ci dicono da tutti i pulpiti.
                - Tutto questo è vero - disse Don Chisciotte - ma non so dove tu voglia andare a finire.
                - Vo a finire - disse Sancio - che lei mi deve fare il piacere di stabilirmi un salario fisso; un tanto al mese pel tempo che la servirò; e di farmi pagare questo salario con le sue rendite: perché non voglio stare a delle paghe che arrivano tardi o male, o non arrivan mai; col mio mi aiuti Iddio. In una parola io voglio sapere quel che guadagno, poco o molto che sia; la gallina la cova anche su un uovo solo, e molti pochi fanno un assai, e fintanto che si guadagna qualcosa, non si perde nulla. È vero che se succedesse (ma questo io non lo credo né lo spero) che lei mi desse l’isola che m’ha promesso, io allora non sarei tanto ingrato, né spingerei le cose a tal segno da non volere che si computasse l’ammontare della rendita dell’isola e si levasse dal mio salario, facendo il sorteggio mese per mese.
                - Eh, caro Sancio - rispose Don Chisciotte - alle volte, sì, è proprio meglio un sorteggio che un conteggio.
                - Ho capito - disse Sancio - scommetterei che dovevo dir conteggio e non sorteggio; ma non importa nulla, dal momento che lei m’ha capito.
                - E tanto capito - replicò Don Chisciotte - che son penetrato fino in fondo al tuo pensiero, e conosco il segno a cui miri con le innumerevoli frecce dei tuoi proverbi. Senti, Sancio, io sarei anche disposto a stabilirtelo un salario, se avessi trovato in qualcuna delle storie dei cavalieri erranti un esempio che mi dimostrasse, o anche mi facesse intravedere attraverso il più piccolo spiraglio, quanto eran soliti a guadagnare gli scudieri al mese o all’anno; ma io ho letto tutte o la maggior parte almeno delle loro storie, e non ricordo di aver mai letto che un cavaliere errante abbia stabilito un salario fisso a un suo scudiero. So soltanto che tutti servivano per avere un compenso; e che quando meno se l’aspettavano, se ai loro signori era andata bene, si trovavano compensati con un’isola o con un’altra cosa equivalente, e nel peggiore dei casi s’acquistavano un titolo nobiliare. Se con queste speranze e questi emolumenti, caro Sancio, vi piace dunque di tornare a servirmi, benvenuto; ma che io voglia uscire dai termini e confini delle antiche usanze della cavalleria errante, caro Sancio, non ci pensate nemmeno. Quindi tornate a casa vostra, e riferite a vostra moglie Teresa le mie intenzioni, e se piace a lei e piace a voi di stare così alla ventura con me, bene quidem, se no, amici come prima; ché se in piccionaia non manca l’orzo,  non mancheranno piccioni, e ricordatevi che chi lascia il poco per l’assai, si ritrova sovente in mezzo a’ guai, e chi troppo vuole, niente ha. Parlo in questo modo, caro Sancio, per farvi vedere che anch’io, come voi, so far piovere proverbi a dirotto; e in conclusione vi voglio dire e vi dico che, se non volete venire con me a queste condizioni e correr la sorte che correrò io, Dio stia con voi e vi santifichi, ché a me non mancheranno scudieri più obbedienti, più zelanti e non tanto impacci osi e chiacchieroni come voi.
                Quando Sancio sentì la ferma risoluzione del suo padrone, gli si rannuvolò il cielo, e gli caddero giù le ali dal cuore, perché aveva creduto che il suo padrone non sarebbe andato via senza di lui per tutto l’oro del mondo; e mentre se ne stava così incerto e pensoso, entrò Sansone Carrasco con la governante e la nipote, desiderose di sentire con quali ragioni egli avrebbe persuaso il loro padrone a non tornare a cercare avventure. Quel burlone di Sansone si fece avanti, e abbracciandolo come la prima volta e alzando la voce:
                - O fiore della cavalleria errante - esclamò. - O splendida luce delle armi! O onore e specchio della nazione spagnuola! Piaccia all’onnipotente Iddio, in tutta l’estension del termine, che la persona o le persone che vorrebbero impedire e frapporre ostacoli alla tua terza uscita, senza uscita rimangano nel laberinto dei loro desidèri, e non vedano mai più compiersi ciò che esse maggiormente desideravano. - E volgendosi alla governante le disse: - La signora governante smetta pure di recitare l’orazione di Santa Apollonia, poiché io so che è precisa determinazione delle sfere celesti che il signor Don Chisciotte torni a mandare ad effetto i suoi alti e nuovi progetti; e io m’aggraverei molto l’anima, se non persuadessi e intimassi a questo cavaliere di non tener più ritirata e inoperosa la forza del suo braccio valoroso e la bontà del suo intrepido animo, perché col suo ritardo defrauda il diritto dei torti, la protezione degli orfani, l’onore delle donzelle, il sostegno delle maritate, e altre cose di questo genere che toccano, appartengono e sono annesse e connesse all’ordine della cavalleria errante. Su, signor Don Chisciotte, da bravo, piuttosto oggi che domani, si ponga Vostra Grazia e Vostra Grandezza in cammino; e se qualche cosa le mancasse per l’esecuzione dei suoi progetti, son qua io per supplirvi di persona e di borsa; e se fosse necessario servire Vostra Magnificenza da scudiero, la riterrei come una gran fortuna.
                Qui Don Chisciotte, voltandosi a Sancio:
                - Non te lo dicevo, Sancio - esclamò - che scudieri n’avrei avuti d’avanzo? Guarda chi si offre di farmi da scudiero: nientemeno che l’illustrissimo baccelliere signor Sansone Carrasco, continuo divertimento e delizia dei cortili delle scuole di Salamanca, sano di corpo, agile di membra, parco di parole, pronto a sopportare caldo e freddo, fame e sete, con tutte quelle doti insomma che si richiedono per essere scudiero d’un cavaliere errante. Ma non voglia il cielo che, per compiacere i miei gusti, io rovesci e spezzi la colonna delle lettere e il vaso delle scienze, e tronchi la eccelsa palma delle arti liberali: rimanga il nuovo Sancio nella sua patria, e, onorando la patria, onori insieme la canizie dei suoi vecchi genitori; ché io mi contenterò di uno scudiero qualunque, dal momento che Sancio non si degna più di venir con me.
                - Sì, sì, vengo! - esclamò Sancio commosso e con gli occhi pieni di lacrime, e proseguì: - Non si deve dire di me, signor padrone, avuta la grazia gabbato lo santo; no, io son d’una razza che non conosce l’ingratitudine; tutto il mondo lo sa, e lo sa specialmente il mio paese chi sono stati i Panza da cui discendo; tanto più che conosco benissimo da molti benefici, e più ancora dalle buone parole, il desiderio che lei ha di farmi del bene. E se mi son messo a stiracchiare sul salario, è stato per dar retta alla mi’ moglie, che quando la piglia l’aire a sostenere una cosa, non c’è mazzuolo che picchi e ripicchi sui cerchi d’una botte, quanto picchia e ripicchia lei perché si faccia quel che la vuole, ma in sostanza l’uomo dev’essere uomo e la donna, donna; e siccome io son uomo dappertutto, e sfido a dir di no, voglio esserlo anche in casa mia, a dispetto di chi non vuole. Quindi non c’è da far altro, se non che lei metta in ordine il suo testamento col suo bravo codicillo, in modo che non si possano impegnare, e mettiamoci subito in cammino, perché non ne soffra l’anima del signor Sansone; il quale dice che la sua coscienza gli ordina di persuadere la Signoria Vostra a uscire la terza volta pel mondo; e io mi offro di nuovo a servirla fedelmente e lealmente, altrettanto bene e anche meglio di quanti mai scudieri hanno servito cavalieri erranti, nei tempi passati e nei presenti.
                Il baccelliere rimase sorpreso nell’udire il modo di discorrere di Sancio Panza, perché sebbene avesse letto la prima parte della storia del suo padrone, non avrebbe mai creduto che fosse così buffo, come è descritto lì; ma sentendogli ora dire testamento e codicillo che non si possano impegnare, invece di testamento e codicillo che non si possano impugnare, credette tutto ciò che aveva letto di lui, e persuaso d’aver dinnanzi uno dei più solenni mentecatti del nostro tempo, si disse fra sé che, tra padrone e servitore, due pazzi a quel modo non s’eran mai visti nel mondo.
                Finalmente Don Chisciotte e Sancio s’abbracciarono e rimasero amici, e dietro il parere e beneplacito del gran Carrasco, che ora era diventato il loro oracolo, la partenza fu fissata per tre giorni dopo, durante i quali ci sarebbe stato il tempo di preparare il necessario per il viaggio, e di cercare un elmo con la visiera, perché Don Chisciotte disse che gli ci voleva in tutti i modi. «Ci penso io» disse Sansone sapendo che un suo amico ce n’aveva uno (sebbene più nero di ruggine e di gruma che lucido e scintillante pel ben forbito acciaro) e che non gliel’avrebbe rifiutato.
                Le maledizioni che le due donne, governante e nipote, mandarono al baccelliere, non si contano; si strapparono i capelli, si graffiarono il viso, e come le prefiche d’un tempo, piangevano la partenza di Don Chisciotte, come se si trattasse della sua morte. Il progetto che aveva Sansone nel persuadere Don Chisciotte a un’altra sortita consisteva nel fare quello che la storia racconta più avanti: egli era in pieno accordo col curato e col barbiere, co’ quali s’era già consigliato. Alla fine, in quei tre giorni, Don Chisciotte e Sancio si fornirono di tutto ciò che credettero utile, e dopo aver pacificato un poco le donne, Sancio la moglie, Don Chisciotte la nipote e la governante, sul far della notte, senza che nessuno li vedesse, tranne il baccelliere che volle accompagnarli una mezza lega fuori del paese,  si misero in cammino verso il Toboso, Don Chisciotte sopra il suo bravo Ronzinante, e Sancio sopra il suo vecchio ciuco, con le bisacce piene di roba pertinente alla bucolica, e la borsa provvista di denari datigli dal padrone per le evenienze. Sansone l’abbracciò e lo pregò a dargli notizie della sua buona o cattiva fortuna, per rallegrarsi di questa e condolersi dell’altra secondo le leggi dell’amicizia. Don Chisciotte glielo promise, e Sansone ritornò al paese, mentre gli altri due prendevan la  strada della gran città del Toboso.