martedì 7 dicembre 2010

Specchio



Ogni promessa, di Andrea Bajani.
Mi è capitato tra le mani quasi per caso.
L'ho preso senza nemmeno leggere la trama.
Ho pensato Proviamo.
Qui sotto vi ho trascritto l'inizio, che mi ha colpita in modo inaspettato e potente.
Bajani mi si è rivelato come uno scrittore degno del suo mestiere. E di questi tempi, ve l'assicuro non è facile.
Mette le parole al posto giusto, con la forza o la debolezza che ti destabilizzano e stordiscono, ma sorridi.
Usa le immagini, sa dove farle partire, sa scioglierle e adattarle a ciò che vuole.
Spazia.
Leggendo di questo, il succo di una vita, guardata dal balcone di un appartamento adiacente, mi è caduta addosso una coperta tiepida di cose già vissute, di odore di casa mia, di verità.
Le piccolezze quotidiane. Le tragedie che si gonfiano dentro le case e che troppo spesso non trovano finestre aperte da cui sfiatare. L'euforia.
E' tutto così semplicemente vero e minuto, che viene quasi da piangere a vedertelo lì davanti, nella pagina inzuppata di nero. E' tutto così vicino e troppo difficile che non può essere altro che vita vera.
Non aggiungo altro, promesso.
Ma vi guardo le spalle, mentre leggete a capofitto la vostra storia.

I primi tempi che vivevamo insieme Sara la mattina mi accompagnava a scuola per vedere i bambini. Eravamo appena arrivati in quel palazzo, il trasloco era stato abbastanza sbrigativo, e come tutti i traslochi era stata un’audizione, i condòmini che ci guardavano dalla finestra e noi che cercavamo di non dire e non fare niente che potesse infastidirli, volevamo subito essere accettati. Così all’inizio sul balcone mettevamo solo fiori molto appariscenti, stendevamo i vestiti migliori, e ci mostravamo sempre la più affiatata delle coppie. Quando litigavamo chiudevamo le finestre per non farci sentire, e ci soffiavamo dentro tutta la rabbia che avevamo. La stanza si gonfiava della nostra furia, le pareti si incurvavano, la camera si faceva grotta, a ogni urlo un soffio in più, i muri che spingevano all’infuori, il soffitto che saliva. E così pensavamo alla signora del piano di sopra, e a suo nipote, che vedevano il pavimento gonfiarsi all’improvviso sotto i piedi. Poi quando avevamo finito di discutere riaprivamo le finestre, la nostra rabbia sfiatava fuori tutta insieme in un unico soffio che vibrava, i muri tornavano dritti e così pure il pavimento. E noi uscivamo sul balcone pieni di sorrisi, e se vedevamo qualcuno dicevamo Buongiorno come va? Per le scale salutavamo tutti, io che mi presentavo e stringevo le mani dei vicini, e Sara che diceva sempre Noi, perché dire Noi era più rassicurante. E poi perché era romantico, era come rimettersi insieme ogni volta, come scegliersi di nuovo. E infine, soprattutto perché Noi era un auspicio.

Dentro il Noi che Sara pronunciava c’era tutta la vita che avremmo fatto insieme, come una valigia riempita fino all’orlo di parole e su cui poi ci si doveva sedere, per poterla chiudere. Perché esistesse quel Noi era necessario che ci fossero dei figli. Perché il suo Noi era: Noi che adesso siamo solo in due ma poi saremo il tre o quattro se non cinque, e vi riempiremo il palazzo di bambini che all’inizio piangeranno un po’, poi usciranno sul balcone con qualcuno che li farà camminare sulle punte e voi potrete salutarli se vorrete, poi sul balcone giocheranno da soli con la faccia dentro la merenda, poi li vedrete uscire dal portone per mano alla madre per andare a scuola, poi li vedrete uscire da soli, fare due metri, voltarsi indietro, girare l’angolo e accendersi una sigaretta, allora ci sentirete litigare con loro e sentirete sbattere le porte, le urla che passeranno da una stanza all’altra della casa, poi ci sentirete litigare tra di noi, tra madre e padre, perché non saremo d’accordo sui modi di educare, e uno di noi lo vedrete uscire nervoso sul balcone a fumare e tornare dentro e di nuovo uscire, e dei nostri figli qualcuno uscirà tutti i pomeriggi e qualcun altro invece starà sempre chiuso in casa, e gli vedrete cambiare le andatura giù in cortile, rimpettirsi sui sederi oppure rimbalzare molleggiati come scimmie, qualcuno aprirà le spalle strafottente e qualcun altro le richiuderà impaurito, e poi cominceranno a portare a casa i fidanzati e le fidanzate e quando vi abituerete a uno di loro di colpo poi non verrà più, e andranno all’università e li vedrete partire la domenica con un borsone e tornare il sabato con lo stesso borsone più sformato, e li vedrete portare via le loro poche cose in un trasloco e venire ogni tanto per pranzo la domenica e per Pasqua e per Natale, e noi, noi madre e noi padre, ci vedrete all’improvviso orfani di figli stare seduti per lunghe ore sul balcone senza dirci niente, per poi scattare in casa al suono del telefono e avere di nuovo qualcosa da dirci dopo la telefonata, e poi vedrete delle pance crescere attraversando il cortile insieme ai nostri figli e tutto ricomincerà, e sentirete piangere un’altra volta dentro casa e noi che allora invecchieremo tutto d’un colpo, in uno schianto improvviso, e sorrideremo accontentandoci, affaccendati da questi figli che i nostri fogli ci avranno dato al posto loro.

E però noi facevamo l’amore e un figlio non voleva saperne di arrivare. Era il nostro Noi che ogni mese cadeva in terra e si spaccava in due, e a furia di incollarlo poi non si è aggiustato più. I primi mesi era stato normale, fare ogni volta tutto il giro, scollinare i cicli mestruali senza chiedersi nulla, non pensarci nemmeno, solo fare l’amore perché non si poteva fare altro che cercarsi dentro i vestiti appena si era un po’ vicini. Poi era venuto quel pensiero dei figli, un pensiero che all’inizio era un pensiero bello con cui ci abbracciavamo prima di dormire. Così fare l’amore era diventato il modo per provare a gonfiare il nostro Noi, da due che eravamo farlo diventare tre e poi quattro, come un palloncino a forma di coniglio che soffi forte e prima non succede niente poi di colpo sbuca un orecchio. In quel periodo Sara mi accompagnava spesso a scuola, la mattina, salutava i bambini delle mie classi come se fossero tutti quanti figli nostri. Qualcuno lo prendeva in braccio, mi chiedeva Come mi vedi? Ogni mese era la stessa illusione. Per qualche settimana ci credevamo, Sara diceva che se lo sentiva. E allora andavamo in giro travestiti da famiglia, in due dietro una pancia, gli occhi che guardavano tutto dividendo per tre. E c’era una forza immensa, Sara mi diceva Io non ho paura di niente e di nessuno. E tutte le donne incinte che incontravamo Sara trovava un modo per avvicinarle, anche senza dirsi nulla, solo starci vicino, lasciare che le pance si parlassero tra loro. Poi però ogni volta non succedeva niente, e i mesi cominciavano a passare, e di fare visite nessuno dei due ne voleva sapere, almeno dividersi le colpe. Lei a scuola però non ci voleva più venire, ogni mattina inventava una scusa diversa per restare a casa, mi salutava sulla porta. Ogni volta che la sentivo aprire il cassetto in cui teneva gli assorbenti in bagno, sapevo che l’avrei vista uscire mordendosi le labbra. Mi si sarebbe seduta accanto, e per ore non avrebbe detto niente. Poi la sera mi avrebbe cercato furiosa dentro il letto. Così avevamo preso a fare l’amore in un modo scomposto, lei che mi si avventava contro, i piedi che le si stringevano di rabbia, gli occhi socchiusi di furore. Poi restavamo lì, ognuno nella sua parte di letto a respirare con gli occhi aperti, ognuno con un dolore che tanto era solo suo, che non poteva essere l’altro a consolare.

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