venerdì 29 ottobre 2010

Quando si dice Musica

Dei libri che ho letto Sulla strada non è tra i migliori.

Ciò non vuol dire che non mi sia piaciuto, solo che lo trovo troppo distante da me.
Succede.
Ma quello che mi è rimasto dell'America che Kerouac ha voluto descrivere è stata la musica.
Strano, ma dentro a queste pagine vissute non ho fatto altro che seguire le tracce di musica e i rumori del viaggio. Come se solo attraverso queste avrei potuto capire.
E allora vi propongo questa breve bolla, che vi porterà in un'atmosfera che farete fatica a dimenticare.
Buon ascolto...


Le ragazze scesero e noi ci avviammo verso la nostra grande serata, spingendo ancora una volta la macchina giù per la strada. “Ui-hi! Si parte!” gridò Dean, e saltammo sul sedile posteriore e sferragliammo verso la piccola Harlem in Folsom Street.
                Saltammo fuori nella notte calda, selvaggia, sentendo un indiavolato sax-tenore che faceva ululare il suo strumento dall’altra parte della strada, in questo modo: “Ii-iah! Ii-iah! Ii-iah!” mentre delle mano battevano a tempo e la gente urlava: “Dài, dài, dài!”. Dean si era già messo a correre attraverso la strada col pollice per aria, urlando: “Suona, amico, suona!”. Un gruppo di negri con l’abito del sabato sera si scalmanavano davanti all’ingresso. Era una sala col pavimento coperto di segatura e un piccolo palco per l’orchestra sul quale i suonatori stavano ammucchiati col cappello in capo, suonando sopra le teste della gente, un luogo fantastico; ogni tanto pazze donne sfasciate andavano in giro in accappatoio, nei vicoli si sentiva uno sbatacchiar di bottiglie. Nel retro del locale in un corridoio oscuro dietro ai gabinetti insozzati decine di uomini e donne stavano appoggiati al muro bevendo e sputando alle stelle... vino e whisky. Il sax-tenore col cappello stava suonando sull’onda di un meraviglioso soddisfacente motivo improvvisato, una frase ripetuta che si alzava e ricadeva e andava da “Ii-iah!” fino a un più indiavolato “Ii-di-li-iah!” e imperversava al suono della cascata scrosciante della batteria incrinata, martellata da un grosso negro brutale dal collo taurino cui non importava un corno di niente fuorché di castigare i suoi logori tamburi. “Crak, ta-ra-ta-bum, crak”. Scrosciar di musica col sax-tenore ch’era in stato di grazia e tutti lo sapevano. Dean si stava afferrando la testa tra la folla, ed era una folla di pazzi. Stavano tutti a incitare il sassofonista, con urli e stralunar d’occhi, perché tenesse duro e continuasse, e lui si sollevava sulle ginocchia e si abbassava di nuovo col suo strumento, lanciandolo in alto in un chiaro grido sopra il furore. Una negra ossuta altissima dondolava le sue ossa contro la bocca del sassofono di lui, ed egli lo spingeva verso di lei: “Iih! Iih! Iih!”.
                Tutti si dondolavano e ruggivano. Galatea e Marie con una bottiglia di birra fra le mani stavano in piedi sulle loro sedie scuotendosi e saltando. Gruppi di negri entravano inciampando dalla strada, cadendo uno sopra l’altro per arrivare prima. “Non mollare, amico!” strepitava un uomo dalla voce come una sirena di piroscafo, e faceva uscire un grosso muggito che avrebbe potuto essere udito fino a Sacramento: “Ah-aah!”. “Uh!” disse Dean. Si strofinava il petto, il ventre; il sudore gli schizzava dal viso. Bum, una pedata, quel batterista dava calci al tamburo giù in fondo e rullava il ritmo di sopra con quelle bacchette assassine, “Ta-ra-ta-bum!”. Un grassone enorme saltellava sul palco, facendolo incavare e scricchiolare. “Iuh!” il pianista pestava i tasti solo con le mani aperte, accordi, ad intervalli, solo quando il grande sax-tenore si riempiva i polmoni per un’altra tirata... accordi cinesi, che facevano rabbrividire il piano in ogni legno, plink e ogni corda, boong! Il sax-tenore saltò giù dal palco e stette in piedi tra la folla, suonando in tutte le direzioni; aveva il cappello sugli occhi; qualcuno glielo spinse all’indietro. Lui indietreggiò e batté un piede e soffiò una nota rauca, ululante, e tirò il fiato, e alzò lo strumento e lanciò una nota alta, larga e stridula nell’aria. Dean stava proprio di fronte a lui col viso abbassato verso la bocca del sassofono, battendo le mani, col sudore che gocciolava sui tasti del suonatore, e quello se ne accorse e rise dentro allo strumento una lunga tremante pazza risata, e tutti gli altri risero e si dondolarono e dondolarono; e alla fine il sassofonista decise di superare se stesso e si accoccolò giù e tenne un acuto per un tempo lunghissimo mentre tutto il resto crollava all’intorno e le urla si accrescevano e io pensavo che i poliziotti sarebbero arrivati a squadre dal più vicino commissariato. Dean era in trance. Gli occhi del sax-tenore stavano puntati dritti nei suoi; là c’era un pazzo che non solo capiva ma s’interessava e voleva capire di più e molto di più di quanto non ci fosse, ed essi cominciarono a duellare per questo: tutto uscì dallo strumento, non più frasi, solo gridi, gridi: “Booh” e giù fino a “Biip!” e su in alto “Iiih!” e giù fino a note discordanti e ancora su, giù, di lato, sottosopra, orizzontalmente, a trenta gradi, quaranta gradi, e finalmente ricadde fra le braccia di qualcuno e si diede per vinto e tutti gli si accalcarono intorno e gridarono: “Sì! Sì! L’ha suonato come un dio!”. Dean si asciugò col fazzoletto.

mercoledì 20 ottobre 2010

Un poeta e i suoi fiori

Tempo fa ho deciso di lanciarmi nell'epica impresa di leggere I fiori del male (Charles Baudelaire).
Non sapevo esattamente cosa aspettarmi da un libro di poesie.
Il rapporto che ne esce fuori è un po' contorto e fatto di reciproci respingimenti.
Non credo siano facili da leggere, le poesie.
Quando mi metto riesco ad andare avanti solo di qualche pagina, perchè mi sento in qualche modo sazia, come se non mi stesse dentro più niente.
Però sono gonfia e piena in un modo che è difficile da descrivere.
E' bello.
Sono parole che mi accompagnano da mesi, sparse sul comodino, da dove le raccolgo e le assorbo.
Questa che qui vi srotolo è una delle decine di poesie che mi piacerebbe condividere.
S'intitola Heautontimorumenos.
L'ho scoperta una sera che non avevo sonno.
E' strano come le letture che ti impongono a scuola risultino la maggior parte delle volte pesanti e incomprensibili, e come assumano un significato totalmente diverso e umano se le si affronta da soli, come conquista personale...
Ecco a voi questo pezzo, il cui titolo, tradotto, significa "punitore di se stesso".
Succhiate, succhiate...



Ti batterò senza rabbia
né odio, come un beccaio
o come Mosè la sua roccia!
E dai tuoi occhi farò,

per dissetare il mio Sahara,
scorrere flutti di pena.
Sull’acqua salsa del tuo pianto
salperà la mia nave

di desiderio e speranza,
e i tuoi singhiozzi che adoro
come un tamburo di guerra
daranno l’ebbrezza al mio cuore.

Non sono io la nota che stride
nella divina sinfonia,
per questa vorace Ironia
che mi divora e m’intride?

Lei ringhia qui, nella mia voce!
È nel mio sangue quel veleno!
Sì, sono io lo specchio osceno
dove la strega si mira!

Sono la piaga e il coltello,
la guancia e la percossa!
Sono la vittima e il boia,
lo slogatore e le ossa!

Sono il vampiro del mio cuore
-un gran derelitto che al riso
dannato è in eterno, e non ha
la grazia più di un sorriso!

sabato 16 ottobre 2010

Annusare con gli occhi

Quando mi sono trovata davanti in libreria Il profumo, ho pensato che non sarebbe stato un gran libro.
Non so, forse la copertina non mi attraeva, la storia mi pareva troppo assurda e surreale...
Ma, nonostante tutto, l'ho comprato.
Non voglio dire altro. Lascio spazio a queste parole incise sullo schermo.
E' un pezzo lungo, ma è una bella sfida e confido che ce la possiate fare.

Capitolo 49


L’esecuzione era fissata per le cinque del pomeriggio. Già la mattina giunsero i primi curiosi, e si assicurarono i posti. Portarono sedie e panchette, cuscini per sedersi, cibo, vino e  anche i propri figli. Verso mezzogiorno, quando la popolazione rurale affluì in massa da tutte le direzioni possibili, il Cours era già talmente stipato che i nuovi arrivati dovettero accamparsi in alto, nei giardini e nei campi a terrazza al di là della piazza e sulla strada per Grenoble. [...] Affollavano anche i pendii più alti. Erano salite sugli alberi, erano sedute sui muri e sui tetti, si accalcavano a dieci, a dodici per finestra. [...]  Poco dopo le tre comparvero Monsieur Papon e i suoi aiutanti. Li accolse uno scroscio di applausi. [...] Verso le quattro la tribuna cominciò a riempirsi. C’era molta gente elegante da ammirare, ricchi signori con lacchè e buone maniere, belle signore, grandi cappelli, abiti luccicanti. Tutta la nobiltà cittadina e campagnola era presente. I signori del Consiglio comparvero in un tiro chiuso, guidato da due consoli. [...] Da ultimo veniva il vescovo sulla portantina aperta, in veste viola splendente e mitra verde. Chi ancora era a capo coperto, in quel  momento si tolse il berretto. Il clima si fece solenne. Poi per circa dieci minuti non accadde nulla. I signori avevano preso posto, il popolo attendeva immobile, nessuno più mangiava, tutti aspettavano. Papon e i suoi aiutanti erano come inchiodati alla piattaforma del patibolo. [...] Infine, quando già sembrava che la tensione non potesse durare oltre senza erompere in un grido generale, in un tumulto, in una rivolta o in qualche altra manifestazione di massa, si udirono nel silenzio un calpestio di cavalli e uno stridore di ruote. Da Rue Droite scendeva una carrozza chiusa a due cavalli, la carrozza del tenente di polizia. Attraversò la porta della città e apparve, ormai visibile a tutti, nel vicolo che portava al luogo dell’esecuzione. [...] La carrozza si arrestò tra il patibolo e la tribuna. I lacchè saltarono a terra, aprirono la portiera e fecero ribaltare la scaletta fino a terra. Scese il tenente di polizia, dopo di lui un ufficiale della guardia e infine Genouille. Indossava una giacca blu, una camicia bianca, calza di seta bianche e scarpe nere con fibbia. Non era incatenato. Nessuno lo teneva per il braccio. Scese dalla carrozza come un uomo libero. E poi accadde un miracolo. O qualcosa di simile a un miracolo, cioè qualcosa di talmente incomprensibile, inaudito e incredibile, che in seguito tutti i testimoni l’avrebbero definito un miracolo, se mai comunque fossero ancora riusciti a parlare, il che non avvenne, dal momento che poi tutti si vergognarono già soltanto per aver preso parte all’avvenimento. Accadde cioè che le diecimila persone presenti sul  Cours e sui pendii circostanti da un momento all’altro si sentirono invadere dall’assoluta certezza che il piccolo uomo in giacca blu appena sceso dalla carrozza non poteva essere un assassino. [...] L’uomo che si trovava nel luogo dell’esecuzione era l’innocenza in persona. In quel momento lo sentirono tutti, dal vescovo al venditore di limonata, dalla marchesa alla piccola lavandaia, dal presidente della corte al ragazzo di strada. Anche Papon lo sentì. E le sue mani, avvinghiate alla mazza di ferro, tremarono. [...] Non diversamente accadde ai diecimila uomini e donne e bambini e vecchi raccolti sul luogo: si sentirono deboli come giovanette che subiscono il fascino del loro innamorato. Furono sopraffatti da un sentimento possente di affetto, di tenerezza, di folle innamoramento infantile, sì, incredibile, d’amore per quel piccolo assassino, e non potevano, non volevano opporvisi. Era come un pianto al quale non si può resistere, come un pianto a lungo trattenuto che sale dallo stomaco e annulla come per miracolo qualsiasi resistenza, scioglie e dilava ogni cosa. Liquido puro erano ormai tutti, sciolti dentro nello spirito e nell’anima, un unico amorfo fluire, soltanto il loro cuore si muoveva all’interno come un debole grumo, e ognuno di essi, ognuno di esse, lo depose tra le mani del piccolo uomo in giacca blu, nella buona e nella cattiva sorte: lo amavano. Già da parecchi minuti Grenouille stava accanto alla portiera della carrozza senza muoversi. Il lacchè accanto a lui era caduto in ginocchio, e continuò ad abbassarsi sino ad assumere quell’atteggiamento di prostrazione totale che si usa in Oriente davanti al sultano e davanti ad Allah. E persino in questo atteggiamento continuava a tremare e a vacillare, e tentava di abbassarsi ancor più, fino a stendersi contro la superficie della terra, fino a entrarvi, fino a sotterrar visi. La sua devozione l’avrebbe fatto sprofondare fino all’altro capo del mondo. L’ufficiale della guardia e il tenente di polizia, entrambi uomini imponenti, che ora avrebbero dovuto condurre il condannato sul patibolo e affidarlo al boia, non riuscivano più a controllare i loro gesti. Piangevano e si toglievano il cappello, se lo rimettevano, si buttavano a terra, si gettavano l’uno tra le braccia dell’altro, si staccavano, agitavano le braccia in aria come insensati, si torcevano le mani, sussultavano e facevano smorfie come se fossero stati colti dal ballo di san Vito. I notabili che si trovavano un poco più distanti si abbandonavano alla loro emozione in modo non molto più discreto. Ognuno lasciava via libera all’impulso del proprio cuore. C’erano signore che alla vista di Grenouille si premevano i pugni contro il ventre e sospiravano di piacere; altra che, colte da struggente desiderio per lo splendido giovane - poiché tale appariva ad esse -, cadevano silenziosamente in deliquio. C’erano signori che d’un tratto schizzavano via dai loro sedili e poi si lasciavano ricadere giù e saltavano su di nuovo, ansimando violentemente e serrando i pugni sull’elsa della spada, come se volessero sguainarla e, mentre già la stavano sguainando, la ricacciavano nel fodero, cosicché c’era soltanto un gran strepitare e stridere; e altri, che muti volgevano gli occhi al cielo e torcevano le mani in preghiera; e monsignore, il vescovo, che, come se si sentisse male, si rovesciava in avanti con la parte superiore del corpo e batteva la testa sulle ginocchia, finché la sua mitra verde rotolò giù dalla testa; e non stava affatto male, bensì per la prima volta in vita sua si beava di un’estasi religiosa, poiché un miracolo era avvenuto dinanzi agli occhi di tutti, il Signore Iddio in persona aveva fermato il braccio del carnefice, mostrando colui che per il mondo era un assassino sotto forma di un angelo: oh, che cose simili accadessero ancora nel diciottesimo secolo! Com’era grande il Signore! E com’era piccolo e vano lui stesso, che aveva pronunciato una scomunica senza credervi, soltanto per placare la popolazione! Oh, quale presunzione, quale pusillaminità! E ora il Signore operava un miracolo! Quale splendida umiliazione, quale dolce mortificazione, quale grazia per un vescovo essere castigato in tal modo da Dio! Nel frattempo il popolo, al di là delle barricata, si abbandonava all’ebbrezza sempre più folle e sfrenata che Grenouille aveva scatenato con la sua apparizione. Chi da principio alla sua vista aveva provato soltanto pietà e commozione adesso era traboccante di nuda concupiscenza, chi dapprima aveva provato soltanto ammirazione e desiderio ora si sentiva in preda all’estasi. Tutti pensavano che l’uomo in giacca blu fosse l’essere più bello, più attraente e perfetto che si potesse immaginare: alle monache appariva come il Salvatore in persona, ai seguaci di Satana come il Signore splendente delle tenebre, agli uomini colti l’Essere Sublime, alle fanciulle come un principe di fiaba, agli uomini come il ritratto ideale di loro stessi. E tutti si sentirono riconosciuti e toccati da lui nel loro punto più sensibile, colpiti nel centro del loro eros. Era come se quell’uomo possedesse diecimila mani invisibili e le avesse posate sul sesso si ciascuna delle diecimila persone che lo circondavano, accarezzandolo proprio in quel modo che ognuno, uomo o donna, bramava ardentemente nelle sue più segrete fantasie. La conseguenza fu che la prevista esecuzione di uno dei delinquenti più esecrabili del suo tempo degenerò nel più gran baccanale che fosse stato dato di vedere dal  secondo secolo avanti Cristo in poi: donne morigerate si strapparono la blusa, si denudarono i seni tra urla isteriche, si gettarono a terra con le gonne sollevate, uomini incespicarono con sguardi folli in quel mare di carne lasciva stesa dinanzi a loro estrassero con furia dai pantaloni con dita frementi il loro membro, come irrigidito da un gelo invisibile, si lasciarono cadere ansimanti nel punto in cui si trovavano e copularono in posizioni e accoppiamenti impossibili, il vecchio con la vergine, il bracciante con la moglie dell’avvocato, l’apprendista con la monaca, il gesuita con la moglie del framassone, tutti alla rinfusa, come capitava. L’aria era greve del sudore dolciastro del piacere e colma delle grida, dei grugniti e dei gemiti delle diecimila belve umane. Era infernale. Grenouille stava a guardare e sorrideva. A coloro che lo vedevano, il suo sorriso sembrava il più innocente, il più affascinante e il più seducente del mondo. Ma in verità sulle sue labbra non c’era un sorriso, bensì un sogghigno orrendo, cinico, che rifletteva tutto il suo trionfo e tutto il suo disprezzo. Lui, Jean-Baptiste Grenouille, nato senza odore nel luogo più puzzolente del mondo, che proveniva dai rifiuti, dagli escrementi e dalla putrefazione, cresciuto senza amore, che viveva senza una calda anima umana, unicamente per ostinazione e con la forza del disgusto, piccolo, gobbo, zoppo, brutto, evitato da tutti, un mostro sia di dentro che di fuori, era riuscito a farsi benvolere dal mondo. Ma che benvoluto! Amato! Adorato! Idolatrato! Aveva compiuto l’impresa di Prometeo. Con infinita raffinatezza era riuscito a produrre la scintilla divina che altre persone ricevono dalla culla senza colpo ferire, e di cui lui solo era stato privato. Più ancora! Se l’era creata da sé lottando, nell’interno del suo sé. Era ancora più grande di Prometeo. Si era creato un’aura più splendida e potente di quella di qualsiasi altro uomo prima di lui. E non la doveva a nessuno – non a un padre, non a una madre, e meno che mai a un Dio benevolo – ma unicamente a se stesso. In realtà era il Dio di se stesso, ed era un Dio ben più grande di quel Dio puzzolente d’incenso che dimorava in chiesa. Di fronte a lui c’era un vescovo in ginocchio che guaiva di piacere. Ricchi e potenti, fieri signori e signore si consumavano dall’ammirazione, mentre tutto intorno il popolo, tra cui c’erano padri, madri, fratelli e sorelle delle sue vittime, celebrava orge in suo onore e in suo nome. Un suo cenno, e tutto avrebbero rinnegato il loro Dio e adorato lui, il Grande Grenouille. Sì, era il Grande Grenouille! Adesso era evidente. Lo era, come un tempo nelle sue fantasie d’innamoramento di sé, così ora nella realtà. In questo momento viveva il più grande trionfo della sua vita. E sentì che era orribile. Era orribile, perché non riusciva a goderne neppure per un secondo. Nel momento in cui era sceso dalla carrozza sulla piazza illuminata dal sole, con indosso il profumo che indice gli uomini ad amare chi lo porta, con il profumo cui aveva lavorato per due anni, il profumo che aveva sognato di possedere tutta la vita... nel momento in cui vide e percepì con l’olfatto come esso agiva in modo irresistibile e come, diffondendosi con la rapidità del vento, catturava le persone che gli stavano attorno... in quel momento tutto il disgusto per l’umanità si ridestò in lui e avvelenò il suo trionfo così profondamente che non solo non provò gioia alcuna, ma neppure il minimo senso di compiacimento. Ciò che aveva sempre agognato, e cioè che gli uomini lo amassero, nel momento del suo successo gli era intollerabile, perché lui stesso non li amava, li odiava. E d’un tratto seppe che non avrebbe mai tratto soddisfazione dall’amore, bensì sempre e soltanto dall’odio, dall’odiare e dall’essere odiato. Ma l’odio che provava per gli uomini non trovava eco in loro. Quanto più in quell’istante li odiava, tanto più essi lo idolatravano, perché di lui non percepivano altro se non la sua aura usurpata, la maschera del suo odore, il suo profumo rubato, che in realtà era divinamente buono. Ora avrebbe voluto estirparli tutti dalla terra, quegli uomini stupidi, puzzolenti, erotizzati, proprio come un tempo, nelle contrade della sua anima nera, aveva estirpato gli odori estranei. E si augurava che essi sapessero quanto li odiava, e che per questo, per questo suo unico sentimento vero mai provato, ricambiassero il suo odio e lo estirpassero a loro volta, come già si erano proposti di fare all’inizio. Voleva liberarsi per una volta nella vita. Per una volta nella vita voleva essere uguale agli altri e liberarsi di ciò che aveva dentro: come essi si liberavano del loro amore e della loro stupida adorazione, così lui del suo odio. Voleva essere conosciuto per una volta, una sola volta, nella sua vera esistenza, e ricevere una risposta da un altro uomo sul suo unico sentimento vero, l’odio. Ma non avvenne nulla. Non poteva avvenire nulla. E quel giorno meno che mai. Poiché si era mascherato con il miglior profumo del mondo, e sotto questa maschera non aveva un volto, non aveva nulla se non la sua totale assenza di odore. D’un tratto cominciò a star male, poiché sentì che le nebbie salivano di nuovo attorno a lui. Come allora, nella caverna in sogno nel sonno nella sua fantasia, salirono d’un tratto le nebbie spaventose del suo odore che non riusciva a sentire poiché ne era privo. E come allora provò un’immensa paura e angoscia, e credette di soffocare. Ma diversamente da allora questo non era un sogno né un sonno, bensì la cruda realtà. E diversamente da allora non si trovava solo in una caverna, bensì su una piazza, davanti a diecimila persone. E diversamente da allora non poteva aiutarlo un grido, che l’avrebbe svegliato e liberato, né poteva fuggire tornando nel buon mondo caldo, che l’avrebbe salvato. Poiché questo, qui e ora, era il mondo, e questo, qui e ora, era il suo sogno divenuto realtà. E lui stesso aveva voluto così. Le orribili nebbie soffocanti salivano di nuovo dalla palude della sua anima, mentre attorno a lui il popolo gemeva in estasi orgiastiche e orgasmiche. Un uomo si mise a correre verso di lui. Si era alzato di scatto dalla prima fila dei notabili, con tale impeto che il cappello nero gli era caduto dalla testa, e ora si precipitava verso il luogo dell’esecuzione con la giacca nera svolazzante, come un corvo o come un angelo vendicatore. Era Richis. Mi ucciderà,  pensò Grenouille. È l’unico uomo che non si lascia ingannare dalla mia maschera. Non può lasciarsi ingannare. Ho addosso il profumo di sua figlia, chiaro e rivelatore come il sangue. Deve riconoscermi e uccidermi. Deve farlo. E allargò le braccia per accogliere l’angelo che volava verso di lui. Già pensava di sentire contro il petto l’urto del pugnale o della spada come un colpo stupendamente eccitante, e la lama che penetrava attraverso la sua corazza di profumo e la nebbia soffocante fino al centro del suo cuore freddo... finalmente, finalmente qualcosa nel suo cuore, qualcosa che non fosse lui stesso! Già si sentiva redento. Ma poi d’un tratto Richis gli si buttò al petto, non un angelo vendicatore, ma un Richis sconvolto, che singhiozzava da far pietà, e lo abbracciò, si avvinghiò a lui con tutte le sue forze, come se non avesse trovato altro appiglio in un mare di beatitudine. Non una pugnalata liberatrice, non una stoccata al cuore, neppure una maledizione o anche soltanto un grido d’odio. C’era invece la guancia umida di lacrime di Richis contro la sua e una bocca tremante, che gli sussurrava piangendo: “Perdonami, figlio mio, mio figliolo caro, perdonami!” In quel momento sentì dall’interno che tutto dileguava davanti ai suoi occhi, e il mondo circostante si oscurò totalmente. Le nebbie dentro si lui si trasformarono in un flusso impetuoso, simile a latte bollente, schiumeggiante. Lo inondarono, premettero con forza spaventosa contro la pelle del suo corpo senza trovare una via d’uscita. Tentò di fuggire, di fuggire per l’amor di Dio, ma dove... Voleva scoppiare, esplodere voleva, per non essere soffocato dal suo sé. Infine cadde a terra e perse i sensi.

venerdì 15 ottobre 2010

Goccioline di inchiostro

Mi capita a volte di imbattermi in libri che mi penetrano sotto la pelle, e restano lì a svernare.
Mi costringono ad agire con il loro sapore in bocca.
Non posso cominciare altre storie, devo pazientemente attendere che il turbine di parole nere si depositi, dentro.
E in questo lasco di tempo sono più sensibile.
Sono come colta da un'irrefrenabile bisogno d'affetto.
Ho scritta in faccia una gratitudine strana, che mi lascia a metà tra un gesto e l'altro.
Cyrano de Bergerac è uno di questi libri.
Cyrano, l'uomo, è uno dei personaggi più belli che, a parer mio, siano mai stati descritti.
Mi innamorano le sue rime malinconiche, la sua acutezza, la sua rettitudine e coerenza.
E non è ipocrisia confessare che su qualche pagina io ho pianto...

Ho scelto qui delle piccole strofe, dei versi che mi hanno emozionata per la loro sensibile leggerezza.
Ve li consegno palpitanti sul palmo delle mani... Abbiatene cura...

(parlando di foglie secche)
Cyrano: Come cadono piano
e bene! E come porre, vedete, ognuna sa
nel suo breve viaggio un’intima beltà;
e, malgrado il terrore di imputridire al suolo,
vuol che nella caduta sia la grazia di un volo.

Cyrano: Ahi, nella favola solamente si dicembre che,
udendo dirsi: io t’amo il principe infelice,
fuse la bruttezza il sol delle parole.
Ma tu t’accorgerai che per me non v’è sole!
Le Bret: Piangi?
Cyrano: Ah! no; mai!
Questo no, mai! Sarebbe troppo sconcio vedere
una lagrima lungo tale naso cadere!
Io farò, sin ch’io possa, che mai la sovraumana
bellezza delle lagrime con tanta grossolana
sconcezza si confonda!... Però che veramente
niente v’è più sublime delle lagrime, niente!
Né, suscitando il riso, vorrei per colpa mia,
che una lagrima fosse ridicola!...
             Cyrano: ed a me non resta altro conforto
             che di morir, poi ch’ella mi piange in questo morto!

giovedì 14 ottobre 2010

Tanto per cominciare

Ho sempre sognato che qualcuno lo facesse a me.
Di leggermi una storia, dico.
Mi ricordo di quando ero piccola ed aspettavo impaziente sotto le coperte che mio papà entrasse e si sedesse di fianco a me, con il libro aperto in mano.
E io zitta.
Così ho pensato che mi sarebbe piaciuto condividere con qualcun altro dei pezzetti di storie, dei momenti di libro, delle righe brucianti, dove ci trovo dentro emozioni descritte in un modo perfetto e bellissimo.
Certe volte scopriamo noi stessi nei libri, molto più di quanto siamo disposti ad ammettere.

Bene, compagni di viaggio,
che l'avventura inizi!