venerdì 29 ottobre 2010

Quando si dice Musica

Dei libri che ho letto Sulla strada non è tra i migliori.

Ciò non vuol dire che non mi sia piaciuto, solo che lo trovo troppo distante da me.
Succede.
Ma quello che mi è rimasto dell'America che Kerouac ha voluto descrivere è stata la musica.
Strano, ma dentro a queste pagine vissute non ho fatto altro che seguire le tracce di musica e i rumori del viaggio. Come se solo attraverso queste avrei potuto capire.
E allora vi propongo questa breve bolla, che vi porterà in un'atmosfera che farete fatica a dimenticare.
Buon ascolto...


Le ragazze scesero e noi ci avviammo verso la nostra grande serata, spingendo ancora una volta la macchina giù per la strada. “Ui-hi! Si parte!” gridò Dean, e saltammo sul sedile posteriore e sferragliammo verso la piccola Harlem in Folsom Street.
                Saltammo fuori nella notte calda, selvaggia, sentendo un indiavolato sax-tenore che faceva ululare il suo strumento dall’altra parte della strada, in questo modo: “Ii-iah! Ii-iah! Ii-iah!” mentre delle mano battevano a tempo e la gente urlava: “Dài, dài, dài!”. Dean si era già messo a correre attraverso la strada col pollice per aria, urlando: “Suona, amico, suona!”. Un gruppo di negri con l’abito del sabato sera si scalmanavano davanti all’ingresso. Era una sala col pavimento coperto di segatura e un piccolo palco per l’orchestra sul quale i suonatori stavano ammucchiati col cappello in capo, suonando sopra le teste della gente, un luogo fantastico; ogni tanto pazze donne sfasciate andavano in giro in accappatoio, nei vicoli si sentiva uno sbatacchiar di bottiglie. Nel retro del locale in un corridoio oscuro dietro ai gabinetti insozzati decine di uomini e donne stavano appoggiati al muro bevendo e sputando alle stelle... vino e whisky. Il sax-tenore col cappello stava suonando sull’onda di un meraviglioso soddisfacente motivo improvvisato, una frase ripetuta che si alzava e ricadeva e andava da “Ii-iah!” fino a un più indiavolato “Ii-di-li-iah!” e imperversava al suono della cascata scrosciante della batteria incrinata, martellata da un grosso negro brutale dal collo taurino cui non importava un corno di niente fuorché di castigare i suoi logori tamburi. “Crak, ta-ra-ta-bum, crak”. Scrosciar di musica col sax-tenore ch’era in stato di grazia e tutti lo sapevano. Dean si stava afferrando la testa tra la folla, ed era una folla di pazzi. Stavano tutti a incitare il sassofonista, con urli e stralunar d’occhi, perché tenesse duro e continuasse, e lui si sollevava sulle ginocchia e si abbassava di nuovo col suo strumento, lanciandolo in alto in un chiaro grido sopra il furore. Una negra ossuta altissima dondolava le sue ossa contro la bocca del sassofono di lui, ed egli lo spingeva verso di lei: “Iih! Iih! Iih!”.
                Tutti si dondolavano e ruggivano. Galatea e Marie con una bottiglia di birra fra le mani stavano in piedi sulle loro sedie scuotendosi e saltando. Gruppi di negri entravano inciampando dalla strada, cadendo uno sopra l’altro per arrivare prima. “Non mollare, amico!” strepitava un uomo dalla voce come una sirena di piroscafo, e faceva uscire un grosso muggito che avrebbe potuto essere udito fino a Sacramento: “Ah-aah!”. “Uh!” disse Dean. Si strofinava il petto, il ventre; il sudore gli schizzava dal viso. Bum, una pedata, quel batterista dava calci al tamburo giù in fondo e rullava il ritmo di sopra con quelle bacchette assassine, “Ta-ra-ta-bum!”. Un grassone enorme saltellava sul palco, facendolo incavare e scricchiolare. “Iuh!” il pianista pestava i tasti solo con le mani aperte, accordi, ad intervalli, solo quando il grande sax-tenore si riempiva i polmoni per un’altra tirata... accordi cinesi, che facevano rabbrividire il piano in ogni legno, plink e ogni corda, boong! Il sax-tenore saltò giù dal palco e stette in piedi tra la folla, suonando in tutte le direzioni; aveva il cappello sugli occhi; qualcuno glielo spinse all’indietro. Lui indietreggiò e batté un piede e soffiò una nota rauca, ululante, e tirò il fiato, e alzò lo strumento e lanciò una nota alta, larga e stridula nell’aria. Dean stava proprio di fronte a lui col viso abbassato verso la bocca del sassofono, battendo le mani, col sudore che gocciolava sui tasti del suonatore, e quello se ne accorse e rise dentro allo strumento una lunga tremante pazza risata, e tutti gli altri risero e si dondolarono e dondolarono; e alla fine il sassofonista decise di superare se stesso e si accoccolò giù e tenne un acuto per un tempo lunghissimo mentre tutto il resto crollava all’intorno e le urla si accrescevano e io pensavo che i poliziotti sarebbero arrivati a squadre dal più vicino commissariato. Dean era in trance. Gli occhi del sax-tenore stavano puntati dritti nei suoi; là c’era un pazzo che non solo capiva ma s’interessava e voleva capire di più e molto di più di quanto non ci fosse, ed essi cominciarono a duellare per questo: tutto uscì dallo strumento, non più frasi, solo gridi, gridi: “Booh” e giù fino a “Biip!” e su in alto “Iiih!” e giù fino a note discordanti e ancora su, giù, di lato, sottosopra, orizzontalmente, a trenta gradi, quaranta gradi, e finalmente ricadde fra le braccia di qualcuno e si diede per vinto e tutti gli si accalcarono intorno e gridarono: “Sì! Sì! L’ha suonato come un dio!”. Dean si asciugò col fazzoletto.

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