mercoledì 2 maggio 2012

Detriti

Racconto piccolo, ma che tocca dentro.
Le parole sono scelte con minuziosa premura.
I personaggi si stagliano sullo sfondo tremolante d'acqua e sembra quasi di toccarli, in quell'auto troppo stretta.

Ecco a voi Antonio Tabucchi.

Nonostante tutto.



Sembra di essere in un romanzo di Simenon, disse l’uomo, la sera di pioggia, le cittadine di provincia che abbiamo attraversato, la diga d’Olanda, questa mia pipa. A proposito, scusa, ti dà noia se fumo? Spense l’automobile e mise i fari di posizione.
                La donna lo guardò e sorrise. È tanto che fumi la pipa?, chiese.
                Dopo l’infarto, rispose l’uomo, sono vent’anni, con la pipa il fumo non si ingoia, ma dà l’illusione del profumo.
                Qual è il quadro che ti è piaciuto di più?, chiese lei, domanda da un milione di franchi.
                Beh, disse lui, intanto avrei da ridire su tutta la mostra, a me queste megamostre non piacciono, mi danno un senso di smarrimento, è come fare un’indigestione, forse un’indigestione di caviale, ma pur sempre un’indigestione.
                Allora perché sei venuto?, chiese lei.
                Oh, fece lui, è semplice, per non mancare a un appuntamento.
                Pensavi che ci saremmo incontrati?, chiese lei con stupore.
                L’uomo sorrise ancora. Certo che no, disse, chi se lo poteva immaginare, fra tutta quella folla, dopo tutto questo tempo. Il mio era solo un appuntamento platonico, un omaggio al tempo andato, una fedeltà a un pittore che avevamo amato insieme. Ti ricordi Arles?
                Era il cinquantotto, disse lei.
                No, ribatté lui con convinzione, era il cinquantanove.
                No, disse lei con dolcezza, era il cinquantotto, nel cinquantanove siamo stati a Saint-Rémy, a visitare l’asilo psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole, e poi Auvers-sur-Oise, dove lui morì, a Arles ci siamo stati nel cinquantotto, era settembre.
                L’uomo si grattò la testa e si sistemò il nodo della cravatta.
                Nel mio ricordo avevo invertito gli anni, disse, ma come al solito hai ragione tu.
                È che io ho tenuto un diario, disse lei, tutto qui. Comunque non hai risposto alla mia domanda, qual è il quadro che ti è piaciuto di più?
                Avrei dovuto tenerlo anch’io, disse lui senza rispondere alla domanda, invece tutto quel periodo è affidato solo alla memoria, e la memoria è piena di buchi, si sa, è fatta di detriti.
                Anche i diari sono pieni di buchi, disse lei, cosa credi?, a volte ho tentato di rileggere il mio diario per riafferrare quei giorni ed è pieno di buchi, sono solo lacerti, mi pare addirittura che lo abbia scritto un’altra persona, voglio dire la stessa persona che è anche un’altra persona.
                Io ho le foto, disse lui. E poi continuò: scusa, ma siamo in tema, metto una vecchia canzone di Charles Trenet, sembra fatta apposta. Pigiò il tasto del mangianastri e inserì una cassetta. Poi riaccese la pipa che si era spenta e aprì una fessura nel finestrino perché il fumo potesse uscire. Ora stava piovendo a dirotto. Acqua da tutte le parti, disse, acqua dal cielo, acqua a destra, acqua a sinistra, siamo in mezzo all’acqua. Une photo, vieille photo de ma jeunesse, canticchiò accompagnando le parole di Trenet.
                Le tue foto hanno fatto il giro del mondo, disse lei, so che New York ti ha fatto un grande omaggio, sei il fotografo più celebrato del momento.
                Diciamo che lo sono stato, disse lui, ora è il momento di cedere il posto ai giovani.
                E così hai le foto di quei tempi?
                Tutte, tutta la nostra Provenza. Potrei farne una copia e mandartele.
                Non so, disse lei, forse è meglio di no, forse preferisco guardare con l’occhio della memoria. Però mi piacerebbe averne una di te, del tuo viso di allora.
                Ho un autoritratto che feci allo specchio dell’albergo di Arles, sussurrò lui, ti ricordi?, ti ricordi che albergo era?
                Il nome non lo ricordo, ma era in rue Lépic, era senz’altro in rue Lépic.
                Come fai a ricordarti il nome della strada?
                Perché in quella stessa strada lui aveva abitato e dipinto, disse lei, aveva un atelier sull’angolo di rue Lépic e noi ci fermammo in un alberghetto di quella stessa via perché ci parve un buon auspicio.
                Fu di buon auspicio?
                Lei fece finta di non aver capito.
                Fu di buon auspicio?, ripeté lui a voce più alta.
                Sì, certo, disse lei, è stata una cosa bellissima, solo che le lancette ingoiano tutto in un attimo, è terribile, non ti pare?
                Terribile cosa?, disse lui.
                Così, disse lei. Uno attraversa la vita quasi senza accorgersene, e poi ci ripensa dopo, quando la vita è passata.
                Lui tacque un attimo e poi disse: sono indeciso fra L’eglise d’Auvers-sur-Oise e La chambre de Vincent à Arles, quella del 1888, ma forse direi il secondo.
                Ah, disse lei dopo un momento di riflessione, hai finalmente risposto alla mia domanda.
                E tu, chiese lui, qual è il quadro che ti è piaciuto di più?
                La sieste, disse lei, non so se l’hai presente, due contadini, un uomo e una donna, che riposano su dei covoni di grano. È il meriggio, è tutto quieto, lontano si vede un cielo azzurrissimo, loro sono circondati dal giallo dorato delle messi, sembra di sentire il suono delle cicale.
                Perché proprio La sieste?, chiese lui.
                Beh, disse lei, per motivi sentimentali, perché anche noi una volta abbiamo fatto una siesta, non so se ti ricordi, è stato vicino al ponte di Langlois, anzi, dove anticamente c’era il ponte di Langlois, comunque in quella zona lì, passavamo in macchina e decidemmo di fare una merenda, io avevo comprato pane e formaggio, e poi ci addormentammo su un mucchio di paglia.
                 Io avrei detto i Tournesols, disse lui.
                Come?, chiese lei.
                No, aggiunse lui, volevo dire che ero convinto che tu avresti scelto i Tournesols.
                La pioggia era aumentata di intensità. Ora, a causa del vento, formava dei vortici che mulinellavano intorno ai fasci di luce dei fari.
                Sai a cosa mi fa pensare questa pioggia?, disse lei, al tempo.
                In che senso?, chiese lui.
                Non saprei, disse lei.
                A proposito di tempo, disse lui, che ora abbiamo fatto?
                Lei guardò l’orologio. È quasi mezzanotte, disse.
                Forse è meglio se rientriamo, disse lui, devo coricarmi presto, me lo ha ordinato il medico. Accese il motore e cominciò a fare manovra per tornare indietro. Il mare era calmo, tranquillo, sembrava che quella pioggia lo pacificasse.
                Non ero mai stata su una diga d’Olanda, disse lei, è una sensazione strana.
                Dove vivi?, chiese lui.
                A Parigi, disse lei, e tu?
                A Ginevra, rispose lui, è per via delle tasse.
                Ti ricordi L’Anguille?, chiese lei.
                Certo, disse lui, era un ristorante, ma non era a Arles, dov’era e com’era?, aiutami a ricordarlo meglio.
                Era vicino a Sète, disse lei, il padrone aveva lavorato come cuoco di bordo sui transatlantici di lusso, la moglie era alcolizzata, in quel ristorante non ci andava mai nessuno eppure si mangiava benissimo, lo scoprimmo per caso, tu adoravi le grenouilles à la provençale.
                Pranziamo insieme domani?, chiese lui.
                Domattina parto, disse lei, sono venuta per vedere la mostra.
                Quante cose, disse lui.
                Quante cose cosa?, disse lei.
                Quante cose tutto, disse lui.
                Lei starnutì e chiese se poteva accendere il riscaldamento.