martedì 3 aprile 2012

Andar(sen)e


Ci sono dei momenti nella vita in cui ti capita qualcosa.
Poi apri il libro che stai leggendo, e te la ritrovi lì, stampata, davanti.
Fa un po' i brividi, a pensarci, ma con questo pezzo mi è successo proprio così.
Dal libro Le vie dei canti, Bruce Chatwin cerca il modo di raccontare quello che spinge l'uomo a lasciarsi qualcosa alle spalle per cercare un altro qualcosa che non sa ancora.

Qui sotto ci sono due uomini.
Non si conoscono, ma non è importante.

Guardate come tutto - sempre - si muove.



                Chiusi il libro di scatto. Le poltrone di pelle della London Library mi avevano fatto venire un gran sonno. L’uomo seduto accanto a me stava russando con una rivista letteraria distesa sullo stomaco. Al diavolo le migrazioni! mi dissi. Posai la pila di libri sul tavolo. Avevo una gran fame.
                Era dicembre, fuori faceva freddo e c’era il sole. Speravo di scroccare il pranzo a un amico. Stavo camminando in St. James Street quando, all’altezza del White’s Club, scese da un taxi un uomo con un capotto dal colletto di velluto. Con gesto magnanimo diede due banconote al taxista e si diresse verso gli scalini. Aveva folti capelli grigi e un reticolo di capillari rotti, come se sopra le sue guance fosse stesa una calza di nailon rossa. Lo avevo visto in fotografia: era un duca.
                Nello stesso istante un altro uomo, con un pastrano da reduce, senza calze e con le scarpe legate con lo spago, arrivò in fretta con un sorriso accattivante.
                «Ehm... Scusi se la disturbo, Sir» disse con spiccato accento irlandese. «Ma forse lei potrebbe...».
                Il duca si affrettò a entrare.
                Guardai il barbone, e lui mi guardò con aria d’intesa. Sul suo cuoio capelluto chiazzato galleggiavano ciuffi di capelli rossicci. Aveva occhi lacrimosi, imploranti fiducia, leggermente strabici. Doveva aver passato i sessant’anni da un pezzo. Dal mio aspetto giudicò che non valesse la pena accampare delle pretese sul mio portafogli.
                «Ho un’idea» gli dissi.
                «Dica, eccellenza».
                «Lei viaggia, vero?».
                «In tutto il mondo, eccellenza».
                «Be’, se ha voglia di raccontarmi i suoi viaggi, le offro con piacere il pranzo».
                «E io accetto volentieri».
                Andammo dietro l’angolo, in un ristorante italiano di Jermyn Street affollato ed economico. C’era un tavolino libero.
                Non lo invitai a togliersi il pastrano per paura di quello che c’era sotto. Due eleganti segretarie si scostarono da noi, rimboccandosi la gonna sotto le gambe come se si aspettassero un’invasione di pulci.
                «Che cosa prende?» domandai.
                «Ehm... lei cosa prende?»
                «Su, » dissi «ordini quello che vuole».
                Tenendo il menu capovolto, lo esaminò con la disinvoltura di un cliente abituale che si sente in dovere di controllare il plat du jour.
                «Bistecca con patatine!» esclamò.
                La cameriera smise di masticare il fondo della matita e indirizzò alle segretarie un’occhiata torturata.
                «Filetto o lombata?» domandò.
                «Fa lo stesso» rispose lui.
                «Due lombate» dissi io. «Una normale, una un po’ al sangue».
                Lui spense la sete con una birra, ma il pensiero del cibo gli ipnotizzava la mente; agli angoli della bocca gli comparvero delle goccioline di saliva. Sapevo che i barboni hanno metodi sistematici di frugar la spazzatura e ritornano spesso a un gruppo preferito di pattumiere. Come si regolava, gli domandai, con i club di Londra?
                Ci pensò su un momento e poi disse che il meglio era sempre l’Athenaeum. Tra i suoi membri c’erano ancora dei religiosi.
                «» rimuginò. «Di solito si riesce a spillare uno scellino a un Vescovo».
                Subito dopo, ai vecchi tempi, veniva il Traveller’s. Quei signori, come lui, avevano visto il mondo.
                «Un incontro di anime, si potrebbe dire» continuò. «Ma adesso... no, no».
                Il Traveller’s non era più quello di un tempo. Era subentrata un’altra categoria di persone.
                «Pubblicitari» disse cupamente. «Molto taccagni, mi creda».
                Aggiunse che il Brooks’s, il Boodle’s e il White’s erano ormai tutti della stessa risma. Ad alto rischio! O grande generosità... o niente!
                L’arrivo  della bistecca inibì completamente la sua capacità di conversazione. La attaccò con sorda ferocia, sollevò il piatto alla bocca, leccò il sugo e poi, ricordandosi dov’era, lo posò di nuovo sul tavolo.
                «Ne vuole un’altra?» domandai.
                «Non dico di no, eccellenza» rispose. «Molto cortese da parte sua».
                Ordinai una seconda bistecca, e lui si lanciò nella storia della sua vita. Ne valeva la pena. Il racconto, quando prese forma, era esattamente ciò che volevo sentire: il piccolo podere nella contea di Galway, la morte della madre, Liverpool, l’Atlantico, i mattatoi di Chicago, l’Australia, la Depressione, le isole dei mari del sud...
                «Oooh! Quello è il posto per lei, ragazzo mio! Tahiti! Vahine!».
                Si passò la lingua sul labbro inferiore.
                «Vahine!» ripeté. «Così chiamano le donne laggiù... Oooh! Che meraviglia! L’ho fatto in piedi sotto una cascata!».
                Le segretarie chiesero il conto e uscirono. Alzai gli occhi e vidi le mascelle squadrate del capo cameriere e il suo sguardo ostile. Temetti che ci buttassero fuori.
                «C’è un’altra cosa che vorrei sapere».
                «Dica, eccellenza, sono tutt’orecchi».
                «Ritornerebbe in Irlanda?».
                «No». Chiuse gli occhi. «No, non ne avrei voglia. Troppi brutti ricordi».
                «Ma c’è un luogo che considera “casa sua”?».
                «Certo che sì». Rovesciò la testa all’indietro e rise. «La Promenade des Anglais, a Nizza. Mai sentita ?».
                «» risposi.
                Una notte d’estate, sulla Promenade, aveva attaccato discorso con un facondo signore francese. Per un’ora avevano parlato, in inglese, della situazione mondiale. Poi il signore aveva estratto dal portafoglio un biglietto da 10.000 franchi - «Vecchi franchi, sa!» -, e dopo avergli dato il suo biglietto da visita gli aveva augurato un piacevole soggiorno.
                «Porca miseria!» gridò. «Era il capo della polizia... a Nizza!».
                Adesso il ristorante era meno affollato. Gli ordinai una doppia porzione di torta di mele. Non volle il caffè; non lo digeriva, disse. Poi ruttò e io pagai.
                «Grazie, Sir» disse con l’aria di un intervistato che ha una sfilza di impegni pomeridiani. «Spero di esserle stato utile».
                «Altroché» lo ringraziai.
                Si alzò in piedi, ma si sedette di nuovo e mi fissò con aria intenta. Dopo aver parlato delle circostanze esterne della sua vita, non voleva andarsene senza un commento sulle sue motivazioni interiori.
                Allora, lentamente e con grande serietà, disse:
                «È come se ti trascinasse la corrente. Io sono come la sterna artica, eccellenza. È un uccello, un bell’uccello bianco che dal Polo Nord vola al Polo Sud e poi torna indietro».

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