Ho sempre pensato a lei in modo vago e con una punta di risentimento.
Troppo bella. In qualche modo snob. Mi irritava che per causa sua fossero morte migliaia di persone. Accecati dall'odio e dal vapore velenoso del suo splendore.
Mi dicevo che si sarebbe potuta ribellare, che avrebbe dovuto far sentire la sua voce.
Poi ho letto Omero, Iliade, la riscrittura che ne ha fatto Baricco. E ho colto solo una grande sofferenza.
Qui è una donna sola. Che non vuole altro che tornare a casa. Stanca. Di essere guardata. Di essere additata come causa primordiale di tutte le sciagure. E mi sono improvvisamente accorta di provare un qualcosa come solidarietà, verso di lei. Un sentimento sottile che mi ha legata alla sua figura ritagliata con cura ma troppo debole per riuscire a sollevarsi.
Non so. Ma ogni volta che affondo tra le righe piumate dell'Iliade, mi accorgo che la storia mi prende alle viscere. E non capisco come questo possa accadere, a distanza di migliaia di anni.
Allora, ecco per voi questo.
Spero che alla fine l'emozione vi prenda, come brivido inatteso, ma umano.
Elena.
Come una schiava, io quel giorno stavo in silenzio, nelle mie stanze, costretta a tessere su una tela color sangue le imprese dei Troiani e degli Achei in quella dolorosa guerra combattuta per me. D’un tratto vidi Laodice, la più bella delle figlie di Priamo, entrare e gridarmi “Corri, Elena, vieni a vedere laggiù, Troiani e Achei... erano tutti nella pianura, e stavano per scontrarsi, avidi di sangue, e adesso stanno in silenzio, gli uni davanti agli altri, con gli scudi appoggiati al suolo e le lance piantate a terra... Si dice che abbiano cessato la guerra, e che Paride e Menelao combatteranno per te: tu sarai il premio del vincitore”.Io la ascoltai, e d’improvviso mi venne da piangere, perché grande, in me, era la nostalgia per l’uomo che avevo sposato, e per la mia famiglia, e la mia patria. Mi coprii con un velo bianco splendente e corsi verso le mura, ancora con le lacrime agli occhi. Quando arrivai sul torrione delle porte Scee vidi gli anziani di Troia, radunati lì a guardare ciò che accadeva nella pianura. Erano troppo vecchi per battersi, ma gli piaceva parlare e in quello erano dei maestri. Come cicale su un albero, non la smettevano mai di far sentire la loro voce. Li sentii che borbottavano quando mi videro, “Non c’è da stupirsi che Troiani e Achei si ammazzino per quella donna, non sembra una dea? Che le navi se la portino via, lei e la sua bellezza, o non finirà mai la rovina nostra e dei nostri figli”. Così dicevano, ma senza osare guardarmi. L’unico che osò farlo fu Priamo. “Vieni qui, figlia”, mi disse, ad alta voce, “Siediti accanto a me. Tu non hai colpa per tutto questo. Sono gli dei che mi hanno tirato addosso questa sventura. Vieni, da qui si possono vedere tuo marito, e i tuoi parenti, gli amici... dimmi, chi è quell’uomo imponente, quel guerriero acheo così nobile e grande? Altri sono più alti di lui ma non ho mai visto uno così bello, così maestoso: ha l’aspetto di un re.” Allora io andai accanto a lui e risposi: “Ho rispetto e paura di te, Priamo, padre del mio nuovo sposo. Oh, se solo avessi avuto il coraggio di morire piuttosto che seguire tuo figlio fin quaggiù e abbandonare il mio letto nuziale, e la figlia ancora bambina, e le amate compagne... ma non è stato così, ed ora io mi consumo nel pianto. Ma tu vuoi sapere chi è quel guerriero... È il figlio di Atreo, Agamennone, re potentissimo e forte guerriero: un tempo, se mai ci fu quel tempo, era il cognato di questa donna indegna che ora ti sta parlando”. Priamo continuava a guardare, giù, tra i guerrieri. “E quell’uomo”, mi chiese, “Chi è? È più basso di Agamennone ma ha il petto e le spalle più larghi. Lo vedi?, passa in rassegna le file degli uomini e sembra un montone di fitto vello che si aggira tra il gregge di pecore bianche.” “Quello è Ulisse”, risposi, “Figlio di Laerte, cresciuto ad Itaca, l’isola di pietra, e famoso per la sua astuzia e la sua intelligenza.” “È vero”, disse Priamo, “Io l’ho conosciuto. Un giorno venne qui in ambasciata, insieme a Menelao, per discutere della tua sorte. Io li accolsi nella mia casa. Mi ricordo che Menelao parlava velocemente, con poche parole, molto chiare. Parlava bene ma era giovane... Ulisse invece... quando toccava a lui parlare, se ne restava immobile, guardando in basso, sembrava non sapesse cose dire: sembrava sopraffatto dalla collera o completamente pazzo; ma quando poi alla fine parlava gli usciva una voce così profonda... le parole sembravano fiocchi di neve d’inverno... e allora nessun uomo avrebbe osato sfidarlo, figlia mia, e non importava se era più piccolo di Menelao o di Agamennone...” Poi Priamo scorse tra i guerrieri Aiace, e mi chiese “E quello chi è, così grande e forte da superare tutti gli altri Achei?”. E io risposi, e gli parlai di Aiace, e poi di Idomeneo, e poi di tutti i principi achei. Potevo riconoscerli tutti, adesso, gli Achei dagli occhi lucenti, uno a uno avrei potuto raccontarli a quel vecchio che da me voleva sapere chi erano i suoi nemici. Ma a quel punto arrivò Ideo, l’araldo, si avvicinò a Priamo, e gli disse “Alzati, figlio di Laomedonte. I condottieri dei Teucri domatori di cavalli e degli Achei dalle corazze di bronzo ti invitano a scendere dalla pianura, per sancire un nuovo patto tra i due eserciti. Paride e Menelao con le loro lunghe lance si batteranno per Elena. Tutti gli altri suggelleranno un patto di amicizia e di pace”. Stette ad ascoltarlo, Priamo. E rabbrividì. Ma poi ordinò che fossero preparati i cavalli e quando tutto fu fatto salì sul carro veloce, insieme ad Antènore, e uscì al galoppo dalle porte Scee. Attraversarono la pianura e quando raggiunsero gli eserciti si fermarono proprio in mezzo, fra Troiani e Achei. Vidi Agamennone alzarsi, e con lui Ulisse. Gli araldi portarono gli animali per i sacrifici con cui si sarebbero suggellati i patti. Mescolarono il vino nella grande coppa, e versarono acqua sulle mani del re. Poi Agamennone levò al cielo le mani, e pregò Zeus a nome di tutti. “Padre Zeus, sommo e glorioso, e tu, Sole, che tutto vedi e tutto ascolti: Fiumi, Terra e voi, che sottoterra punite i traditori, siateci testimoni e custodite i nostri patti: se Paride ucciderà Menelao, si terrà Elena e tutti i suoi beni e noi ce ne andremo per sempre sulle navi che solcano il mare; e se invece Menelao ucciderà Paride, i Troiani ci renderanno Elena con tutti i suoi beni, e pagheranno agli Argivi un prezzo così alto che sarà ricordato per generazioni e generazioni. E se Priamo e i suoi figli non vorranno pagare, io mi batterò per avere quel compenso, e rimarrò qui, fino a quando questa guerra non avrà fine.” Così pregò, e poi con un colpo sicuro sgozzò gli agnelli e li depose a terra, palpitanti, morenti. Tutti i principi bevvero alla grande coppa di vino, e tutti pregarono i loro dei. E dicevano tra loro “Se qualcuno mai oserà violare i patti, che Zeus versi il suo cervello e quello dei suoi figli come noi versiamo questo vino!”. Quando tutto fu compiuto, Priamo, il vecchio re, il vecchio padre, salì sul carro, al fianco di Antènore, e disse ai Troiani e agli Achei: “Lasciatemi tornare nella mia città, battuta dai venti. Perché non ho cuore di vedere mio figlio Paride battersi, qui, con il feroce Menelao”. Spronò i cavalli, lui stesso, e se ne andò via.
Poi, fu il duello. Ettore e Ulisse disegnarono per terra il campo su cui i duellanti avrebbero combattuto. Poi misero in un elmo le tessere della fortuna, e dopo averle scosse, Ulisse, senza guardare, estrasse il nome di chi avrebbe avuto diritto a scagliare per primo la lancia mortale. E la sorte scelse Paride. I guerrieri si sedettero tutt’intorno. Vidi Paride, il mio nuovo sposo, indossare le armi: prima le belle gambiere, allacciate con fibbie d’argento; poi la corazza, sul petto; e la spada di bronzo, borchiata d’argento e lo scudo, grande e pesante. Si pose sul capo lo splendido elmo: la lunga criniera ondeggiava al vento e faceva paura. Infine prese la lancia, e la strinse in pugno. Di fronte a lui, Menelao, il mio vecchio sposo, finì di indossare le sue armi. Sotto gli occhi dei due eserciti, avanzarono uno verso l’altro, guardandosi con ferocia. Poi si fermarono. E il duello iniziò. Vidi Paride scagliare la sua lunga lancia. Con violenza si conficcò nello scudo di Menelao, ma il bronzo non si squarciò, e la lancia si ruppe e cadde a terra. Allora Menelao sollevò a sua volta la lancia e la scagliò con forza enorme contro Paride. Centrò in pieno lo scudo e la punta mortale lo squarciò, e andò a infilarsi nella corazza colpendo di striscio Paride, al fianco. Menelao estrasse la spada e gli balzò addosso. Lo colpì con violenza sull’elmo, ma la spada si spezzò. Lui imprecò contro gli dei e poi con un balzo afferrò Paride dalla testa, stringendo tra le mani lo splendido elmo chiomato. E iniziò a trascinarlo via così, verso gli Achei. Paride sdraiato, nella polvere, e lui a stringergli l’elmo in una morsa micidiale e a trascinarlo via. Finché la cinghia di cuoio che teneva fermo l’elmo sotto il mento si ruppe, e Menelao si trovò in mano l’elmo, vuoto. Lo alzò al cielo, si voltò verso gli Achei e roteandolo in aria lo gettò in mezzo ai guerrieri. Quando si voltò di nuovo verso Paride, per finirlo, si accorse che era scappato, scomparendo tra le file dei Troiani.Fu in quel momento che quella donna sfiorò il mio velo e mi parlò. Era una vecchia filatrice, era venuta con me da Sparta, mi cuciva splendide vesti, laggiù. Mi voleva bene, e io avevo paura di lei. Quel giorno, lassù, sul torrione delle porte Scee si avvicinò e a bassa voce mi disse “Vieni, Paride ti aspetta nel suo letto, si è messo le vesti più belle, più che da un duello sembra tornato da una festa”. Io rimasi allibita. “Sciagurata”, le dissi, “Perché vuoi tentarmi? Saresti capace di portarmi anche in capo al mondo, se là ci fosse un uomo che ti è caro. Adesso, perché Menelao ha sconfitto Paride, e vuole riportarmi a casa, vieni da me a tramare inganni... Vacci tu, da Paride, perché non lo sposi, o magari diventi la sua schiava? Io non ci andrò, sarebbe indegno. Tutte le donne di Troia proverebbero vergogna per me. Lasciami stare qui, con il mio dolore.” Allora la vecchia donna mi guardò furente. “Sta’ attenta”, mi disse, “E non farmi arrabbiare. Potrei abbandonarti qui, lo sai, e seminare odio ovunque, fino a quando non ti troveresti a morire di mala morte.” Mi faceva paura, l’ho detto. I vecchi, spesso, fanno paura. Mi strinsi sul capo il velo bianco splendente e la seguii. Stavano tutti guardando giù, verso la piana. Nessuno mi vide. Andai nelle stanze di Paride e lo trovai là. Una donna che l’amava l’aveva fatto entrare a Troia, da una porta segreta, e l’aveva salvato. La vecchia prese un sedile e lo mise proprio davanti a lui. Poi mi disse di sedermi. Io lo feci. Non riuscivo a guardarlo negli occhi. Ma gli dissi: “Così sei scappato dalla battaglia. Vorrei che tu fossi morto là, ucciso da quel guerriero magnifico che è stato io mio primo marito. Tu che ti vantavi di essere più forte di lui... Dovresti tornare là, e sfidarlo ancora, ma sai benissimo che sarebbe la tua fine”. E mi ricordo che Paride, allora, mi chiese di non fargli del male con le mie offese crudeli. Mi disse che Menelao aveva vinto, quel giorno, perché gli dei erano stati dalla sua parte, ma che magari la prossima volta a vincere sarebbe stato lui, perché anche lui aveva degli dei amici. E poi mi disse: vieni qui, facciamo l’amore. Mi chiese se mi ricordavo la prima volta che l’avevamo fatto, sull’isola di Crànae, proprio il giorno dopo che mi aveva rapita. E mi disse: neanche quel giorno io ti ho desiderata tanto come ti desidero adesso. Poi si alzò e andò verso il letto. E io lo seguii.Lui era l’uomo che in quel momento tutti, laggiù nella pianura, stavano cercando. Era l’uomo che nessuno, né Acheo né Troiano, avrebbe aiutato o nascosto, quel giorno. Era l’uomo che tutti odiavano, come si odia la nera dea della morte.
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