domenica 28 novembre 2010

Lezione su Pascoli

Questo è un estratto dal libro 24 nero, l'autore è Diego Cugia.
La prima volta che l'ho letto ne sono stata inglobata, totalmente.
Non riuscivo a smettere di proseguire. Drogata e ammaliata da queste pagine così pregne e umane.
La storia è ricca di spunti e l'ambientazione ai giorni nostri permette di immedesimarsi pienamente.
Ho amato questo libro. Ne ho amato i personaggi, creati con maestria, che mi sono restati dentro anche molto tempo dopo aver chiuso l'ultima pagina.
Ne ho amato l'inquadratura che l'autore ha scelto, la possibilità di guardare attraverso gli occhi dei protagonisti, senza giudicarli mai.
Eccovi un pezzettino, a fatica estrapolato da quel "tutto" così uniforme e corposo.
Mi auguro che vi piaccia.

                                                                           Kniewald Demian

Aprì la porta della III B. Si mordicchiò un labbro.
«Paoli, lo sai che dovrei spedirti dal preside, vero?» Bompiani controllò l’orologio sotto il crocifisso: «A cosa dobbiamo questa mezzoretta di ritardo?».
                «Leggevo e non mi ero accorta che si era fatta ora.»
                «Scusa furba con un professore di Lettere. Come se un calciatore, per giustificarsi di aver fatto tardi all’allenamento, raccontasse che stava palleggiando in camera sua.» Una ventina di volti scattarono dalla cattedra alla porta e viceversa. Il professore sentì serpeggiare il sadismo del branco quando il singolo è in difficoltà.
                «Che cosa stavi leggendo?»
                «La breve favolosa vita di Oscar Wao.»
                «Magnifico romanzo, Junot Dìaz è un petit Proust dei Caraibi, hai fatto bene.» Mormorio di protesta, risate. «Silenzio, non scherzo mai sulla letteratura. Vai al tuo posto, Paoli.»
                Eva allungò le braccia intrecciate sul banco.
                [...]
                «Pur di vedervi con un romanzo in mano preferirei che saltaste le lezioni» disse. «La televisione sta erodendo le parole. Poesie e romanzi si stanno sgretolando come la Sfinge, mentre le immagini vi cementano il cervello. Ma c’è più storia in Oscar Wao che in cento edizioni del telegiornale.»
                «E  chi se lo guarda il telegiornale, bellaci’! Tutte cazzate» lo provocò Elio Delussi detto Bellaciccio, suo saluto e intercalare. Dalle microcasse irradiò a palla un pezzo dei Led Zeppelin che Eva gli aveva fatto scoprire e lui riteneva la loro canzone. In fondo all’aula si misero a ballare. Lei no.
                Il professore spense l’iPod:
                «Tutte cazzate? Te ne dirò un’altra: è più moderno un verso di Pascoli che un iPod dell’ultima generazione.»
                Delussi lo compatì, inforcò gli occhiali blu.
                «Non sbuffare, Elio. Ve lo dimostrerò con una poesia, La pecorella smarrita. Lo sai che nella Via Lattea ci sono miliardi di stelle? Immagina di aver abbordato una tipa fantastica, lei ci starebbe con te, ma c’è un problema.»
                «Nessun problema, bellaci’.»
                «Abita in un quartiere periferico molto distante da qui.»
                «Che mi frega? Ho la Honda Shadow.»
                «Non ci vai in moto, la tua bionda galattica vive su Alfa Centauri, la stella più vicina a noi, a parte il sole, purtroppo si trova a 40.850 miliardi di chilometri dalla Terra.»
                «Che sfiga.»
                «Sfiga perché il tuo amore vive a miliardi di chilometri da te? E tu rinunci? Resterai eternamente solo.»
                «Mai stato solo, le assicuro.»
                «Ridete, ridete. Ne riparleremo quando boccheggerete in un call center o dovrete inchinarvi in giacca bianca nel ristorante di un coreano con tre lauree.» Si accorse di essere stato violento, entrambe le loro generazioni soffrivano della medesima abulia, negli ultimi anni si era solo più accentuata.
                «Ci stava parlando del telegiornale, che c’entra Pascoli?»
                «C’entra, io aprirei tutte le sere il Tg1 con la notizia che siamo un puntino fra miliardi di galassie.»
                «Per questo, quando faceva il giornalista, non l’hanno mai nominata direttore» ribatté Elio.
                [...]
                «Bellaci’ non ha torto [...] però non ha risolto il problema. Neppure a Cape Canaveral ci sono riusciti. Pascoli era più tecnologico della NASA. Gli bastano quattro versi per navigare nell’universo. Ti sei fatto rubare la donna da un poeta del secolo scorso.» Elio sbirciò Eva, geloso anche di Pascoli:
                «Questo è ancora da vedere.»
                «Vediamolo.» Bompiani tamburellò sulla cattedra: «Immaginate che Pascoli fosse il nonno di E.T. l’Extraterrestre. Il suo protagonista non è un alieno, ma un frate che all’alba esce dal convento svegliato da una voce». La sua tremò con una vibrazione ardente che catturò i ragazzi chini sulle antologie.

                               «“Frate” una voce gli diceva, “è l’ora
                               che tu ti svegli. Alzati! La rugiada
                               è sulle foglie, e viene già l’aurora”.»

                Scivolò sulle terzine seguenti, dall’albero dell’italiano tante parole erano già cadute, dilungandosi a spiegarle sarebbe caduta anche l’emozione. Schioccò le dita: gli studenti lo fissarono sospesi. Nel grande silenzio proseguì da esploratore che, scoperto un arcipelago, battezza ogni atollo con una parola mai pronunciata da essere umano.

                               «“Sentiva in cuore il rombo della voce.
                               Su lui, con le infinite stelle, lento,
                               fluiva il cielo verso la sua foce.

                               Era il dì del Signore, era l’avvento.
                               Spariva sotto i baratri profondi
                               colmi di stelle il tacito convento.

                               Mucchi di stelle, grappoli di mondi,
                               nebbie di cosmi”...

                ... Avete sentito?»
                «Sentito cosa, bellaci’?» lo sfotté Delussi, ma gli scapparono una smorfia timida e un’altra sbirciata a Eva che non se lo filò.
                «Non era il rombo della Honda ma il suono dell’universo. Siamo nel quartiere della tua conquista. Lei abita qui fra mucchi di stelle, grappoli di mondi. Pascoli ti ha anticipato di un milione di anni luce. Ha suonato al campanello della tua ragazza. Sai come ha fatto a scoprire l’indirizzo di questa velina di Alfa Centauri, vestita in minigonna di carta da presepio? Col TomTom? Con un più sofisticato navigatore satellitare? No, l’ha trovata con la mappa del tesoro della poesia, tre versi, questi:

                               “In quella immensa polvere di luce
                               splendeano, occhi di draghi e di leoni,
                               Vega, Deneb, Aldebaran, Polluce”...»

                «E chi sarebbero?»
                «Stelle, fanciulli, stelle. Pascoli ha scoperto la pecorella smarrita con lo stradario dell’infinito, il TomTom dei poeti.»
                «Che gli fregava, a Pascoli, della tipa di Bellaciccio?»
                «Assolutamente niente» ammise. «Non è la ragazza di Elio, per il frate, la pecorella smarrita, ma la Terra. Su tutti gli altri pianeti non esiste il male. Per questo Cristo si è fatto crocifiggere soltanto qui, sul nostro pianeta sperduto fra miliardi di galassie. Per ritrovarci, dice il poeta, o se preferisci per indicarci la via delle stelle.» La campanella mise il punto alla lezione.

lunedì 22 novembre 2010

Il tuo amore ha ali larghe

L'ultimo post che ho pubblicato mi ha fatto tornare in mente un'altra lettera, che avevo scoperto qualche anno fa, letta in televisione da Roberto Benigni. Sono andata a cercarmela.
Non credo siano necessarie molte parole, a dire il vero.
Si sappia solo che è stata scritta da Oscar Wilde, incarcerato perchè colpevole di omosessualità.
E' per questo motivo che penso sia necessario leggere queste parole, che mi incidono la carne da quanto sono vive e sofferenti.
Spero che righe come queste vi entrino in testa, per trasmettervi visceralmente il messaggio che portano.
Che, ormai, è l'unica cosa che gli resta da fare.


Mio carissimo ragazzo,
questo è per assicurarti del mio amore immortale, eterno per te. Domani sarà tutto finito. Se la prigione e il disonore saranno il mio destino, pensa che il mio amore per te e questa idea, questa convinzione ancora più divina, che tu a tua volta mi ami, mi sosterranno nella mia infelicità e mi renderanno capace, spero, di sopportare il mio dolore con ogni pazienza. Poiché la speranza, anzi, la certezza, di incontrarti di nuovo in un altro mondo è la meta e l'incoraggiamento della mia vita attuale, ah! debbo continuare a vivere in questo mondo, per questa ragione.
Il nostro caro amico mi e' venuto a trovare oggi. Gli ho dato parecchi messaggi per te. Mi ha detto una cosa che mi ha rassicurato: che a mia madre non mancherà mai niente. Ho sempre provveduto io al suo mantenimento, e il pensiero che avrebbe potuto soffrire delle privazioni mi rendeva infelice.
Quanto a te (grazioso ragazzo dal cuore degno di un Cristo), quanto a te, ti prego, non appena avrai fatto tutto quello che puoi fare, parti per l'Italia e riconquista la tua calma, e componi quelle belle poesie che sai fare tu, con quella grazia così strana. Non esporti in Inghilterra per nessuna ragione al mondo. Se un giorno, a Corfù o in qualche isola incantata, ci fosse una casetta dove potessimo vivere insieme, oh! la vita sarebbe più dolce di quanto sia stata mai. Il tuo amore ha ali larghe ed è forte, il tuo amore mi giunge attraverso le sbarre della mia prigione e mi conforta, il tuo amore è la luce di tutte le mie ore. Se il fato ci sarà avverso, coloro che non sanno cos'è l'amore scriveranno, lo so, che ho avuto una cattiva influenza sulla tua vita. Se ciò avverrà, tu scriverai, tu dirai a tua volta che non è vero. Il nostro amore è sempre stato bello e nobile, e se io sono stato il bersaglio di una terribile tragedia, è perché la natura di quell'amore non è stata compresa.
Nella tua lettera di stamattina tu dici una cosa che mi dà coraggio. Debbo ricordarla. Scrivi che è mio dovere verso di te e verso me stesso vivere, malgrado tutto. Credo sia vero. Ci proverò e lo farò. Voglio che tu tenga informato Mr Humphreys dei tuoi spostamenti così che quando viene mi possa dire cosa fai. Credo che gli avvocati possano vedere i detenuti con una certa frequenza. Così potrò comunicare con te.
Sono così felice che tu sia partito! So cosa deve esserti costato. Per me sarebbe stato un tormento pensarti in Inghilterra mentre il tuo nome veniva fatto in tribunale. Spero tu abbia copie di tutti i miei libri. I miei sono stati tutti venduti. Tendo le mani verso di te. Oh! possa io vivere per toccare i tuoi capelli e le tue mani. Credo che il tuo amore veglierà sulla mia vita. Se dovessi morire, voglio che tu viva una vita dolce e pacifica in qualche luogo tra fiori, quadri, libri, e moltissimo lavoro.
Cerca di farmi avere tue notizie. Ti scrivo questa lettera in mezzo a grandi sofferenze; la lunga giornata in tribunale mi ha spossato. Carissimo ragazzo, dolcissimo fra tutti i giovani, amatissimo e più amabile. Oh! aspettami! aspettami! io sono ora, come sempre dal giorno in cui ci siamo conosciuti, devotamente il tuo, con un amore immortale
Oscar

mercoledì 17 novembre 2010

Il rispetto che esige silenzio

Preso da Poesia in forma di rosa, questo Frammento epistolare, al ragazzo Codignola mi ha portato subito in un altro posto.
Ero in treno e tenevo il libro tra le mani, come si tiene un oggetto fragile ma che emana una forza che spinge.
Ho letto. E qualcosa mi ha preso alla gola.
Sono parole che conosco, parole che mi trovo dentro, e vederle lì, tutto ad un tratto, esposte e composte in quel modo delicato e terribile, mi ha toccata.

Ora leggete.
Tutto d'un fiato.
Cercate di farvi trasportare dalle parole, anche se non sapete cosa significano, anche se dovreste tornare indietro per capire.
No.
Non adesso.
Lasciate che vi fluisca dentro un'emozione.
Lasciate che parli anche di voi.
La ragione, quella, verrà dopo.
Dopo il silenzio.


Caro ragazzo, sì, certo, incontriamoci,
ma non aspettarti nulla da questo incontro.
Se mai, una nuova delusione, un nuovo
vuoto: di quelli che fanno bene
alla dignità narcissica, come un dolore.
A quarant’anni io sono come a diciassette.
Frustrati, il quarantenne e il diciassettenne
si possono, certo, incontrare, balbettando
idee convergenti, su problemi
tra cui si aprono due decenni, un’intera vita,
e che pure apparentemente sono gli stessi.
Finché una parola, uscita dalle gole incerte,
inaridita di pianto e voglia d’esser soli -
ne rivela l’immedicabile disparità.
E, insieme, dovrò pure fare il poeta
padre, e allora ripiegherò sull’ironia
- che t’imbarazzerà: essendo il quarantenne
più allegro e giovane del diciassettenne,
lui, ormai padrone della vita.
Oltre a questa apparenza, a questa parvenza,
non ho niente altro da dirti.
Sono avaro, quel poco che possiedo
me lo tengo stretto al cuore diabolico.
E i due palmi di pelle tra zigomo e mento,
sotto la bocca distorta a furia di sorrisi
di timidezza, e l’occhio che ha perso
il suo dolce, come un fico inacidito,
ti apparirebbero il ritratto
proprio di quella maturità che ti fa male,
maturità non fraterna. A che può servirti
un coetaneo - semplicemente intristito
nella magrezza che gli divora la carne?
Ciò ch’egli ha dato ha dato, il resto
è arida pietà.
Questo post lo dedico ad un mio amico, Gabriele. Fa lo scrittore. E lui sa perchè.

domenica 14 novembre 2010

L'insostenibile sofferenza dell'essere donna

Elena. Donna bellissima.
Ho sempre pensato a lei in modo vago e con una punta di risentimento.
Troppo bella. In qualche modo snob. Mi irritava che per causa sua fossero morte migliaia di persone. Accecati dall'odio e dal vapore velenoso del suo splendore.
Mi dicevo che si sarebbe potuta ribellare, che avrebbe dovuto far sentire la sua voce.
Poi ho letto Omero, Iliade, la riscrittura che ne ha fatto Baricco. E ho colto solo una grande sofferenza.
Qui è una donna sola. Che non vuole altro che tornare a casa. Stanca. Di essere guardata. Di essere additata come causa primordiale di tutte le sciagure. E mi sono improvvisamente accorta di provare un qualcosa come solidarietà, verso di lei. Un sentimento sottile che mi ha legata alla sua figura ritagliata con cura ma troppo debole per riuscire a sollevarsi.
Non so. Ma ogni volta che affondo tra le righe piumate dell'Iliade, mi accorgo che la storia mi prende alle viscere. E non capisco come questo possa accadere, a distanza di migliaia di anni.
Allora, ecco per voi questo.
Spero che alla fine l'emozione vi prenda, come brivido inatteso, ma umano.
Elena.

Come una schiava, io quel giorno stavo in silenzio, nelle mie stanze, costretta a tessere su una tela color sangue le imprese dei Troiani e degli Achei in quella dolorosa guerra combattuta per me. D’un tratto vidi Laodice, la più bella delle figlie di Priamo, entrare e gridarmi “Corri, Elena, vieni a vedere laggiù, Troiani e Achei... erano tutti nella pianura, e stavano per scontrarsi, avidi di sangue, e adesso stanno in silenzio, gli uni davanti agli altri, con gli scudi appoggiati al suolo e le lance piantate a terra... Si dice che abbiano cessato la guerra, e che Paride e Menelao combatteranno per te: tu sarai il premio del vincitore”.
                Io la ascoltai, e d’improvviso mi venne da piangere, perché grande, in me, era la nostalgia per l’uomo che avevo sposato, e per la mia famiglia, e la mia patria. Mi coprii con un velo bianco splendente e corsi verso le mura, ancora con le lacrime agli occhi. Quando arrivai sul torrione delle porte Scee vidi gli anziani di Troia, radunati lì a guardare ciò che accadeva nella pianura. Erano troppo vecchi per battersi, ma gli piaceva parlare e in quello erano dei maestri. Come cicale su un albero, non la smettevano mai di far sentire la loro voce. Li sentii che borbottavano quando mi videro, “Non c’è da stupirsi che Troiani e Achei si ammazzino per quella donna, non sembra una dea? Che le navi se la portino via, lei e la sua bellezza, o non finirà mai la rovina nostra e dei nostri figli”. Così dicevano, ma senza osare guardarmi. L’unico che osò farlo fu Priamo. “Vieni qui, figlia”, mi disse, ad alta voce, “Siediti accanto a me. Tu non hai colpa per tutto questo. Sono gli dei che mi hanno tirato addosso questa sventura. Vieni, da qui si possono vedere tuo marito, e i tuoi parenti, gli amici... dimmi, chi è quell’uomo imponente, quel guerriero acheo così nobile e grande? Altri sono più alti di lui ma non ho mai visto uno così bello, così maestoso: ha l’aspetto di un re.” Allora io andai accanto a lui e risposi: “Ho rispetto e paura di te, Priamo, padre del mio nuovo sposo. Oh, se solo avessi avuto il coraggio di morire piuttosto che seguire tuo figlio fin quaggiù e abbandonare il mio letto nuziale, e la figlia ancora bambina, e le amate compagne... ma non è stato così, ed ora io mi consumo nel pianto. Ma tu vuoi sapere chi è quel guerriero... È il figlio di Atreo, Agamennone, re potentissimo e forte guerriero: un tempo, se mai ci fu quel tempo, era il cognato di questa donna indegna che ora ti sta parlando”. Priamo continuava a guardare, giù, tra i guerrieri. “E quell’uomo”, mi chiese, “Chi è? È più basso di Agamennone ma ha il petto e le spalle più larghi. Lo vedi?, passa in rassegna le file degli uomini e sembra un montone di fitto vello che si aggira tra il gregge di pecore bianche.” “Quello è Ulisse”, risposi, “Figlio di Laerte, cresciuto ad Itaca, l’isola di pietra, e famoso per la sua astuzia e la sua intelligenza.” “È vero”, disse Priamo, “Io l’ho conosciuto. Un giorno venne qui in ambasciata, insieme a Menelao, per discutere della tua sorte. Io li accolsi nella mia casa. Mi ricordo che Menelao parlava velocemente, con poche parole, molto chiare. Parlava bene ma era giovane... Ulisse invece... quando toccava a lui parlare, se ne restava immobile, guardando in basso, sembrava non sapesse cose dire: sembrava sopraffatto dalla collera o completamente pazzo; ma quando poi alla fine parlava gli usciva una voce così profonda... le parole sembravano fiocchi di neve d’inverno... e allora nessun uomo avrebbe osato sfidarlo, figlia mia, e non importava se era più piccolo di Menelao o di Agamennone...” Poi Priamo scorse tra i guerrieri Aiace, e mi chiese “E quello chi è, così grande e forte da superare tutti gli altri Achei?”. E io risposi, e gli parlai di Aiace, e poi di Idomeneo, e poi di tutti i principi achei. Potevo riconoscerli tutti, adesso, gli Achei dagli occhi lucenti, uno a uno avrei potuto raccontarli a quel vecchio che da me voleva sapere chi erano i suoi nemici. Ma a quel punto arrivò Ideo, l’araldo, si avvicinò a Priamo, e gli disse “Alzati, figlio di Laomedonte. I condottieri dei Teucri domatori di cavalli e degli Achei dalle corazze di bronzo ti invitano a scendere dalla pianura, per sancire un nuovo patto tra i due eserciti. Paride e Menelao con le loro lunghe lance si batteranno per Elena. Tutti gli altri suggelleranno un patto di amicizia e di pace”. Stette ad ascoltarlo, Priamo. E rabbrividì. Ma poi ordinò che fossero preparati i cavalli e quando tutto fu fatto salì sul carro veloce, insieme ad Antènore, e uscì al galoppo dalle porte Scee. Attraversarono la pianura e quando raggiunsero gli eserciti si fermarono proprio in mezzo, fra Troiani e Achei. Vidi Agamennone alzarsi, e con lui Ulisse. Gli araldi portarono gli animali per i sacrifici con cui si sarebbero suggellati i patti. Mescolarono il vino nella grande coppa, e versarono acqua sulle mani del re. Poi Agamennone levò al cielo le mani, e pregò Zeus a nome di tutti. “Padre Zeus, sommo e glorioso, e tu, Sole, che tutto vedi e tutto ascolti: Fiumi, Terra e voi, che sottoterra punite i traditori, siateci testimoni e custodite i nostri patti: se Paride ucciderà Menelao, si terrà Elena e tutti i suoi beni e noi ce ne andremo per sempre sulle navi che solcano il mare; e se invece Menelao ucciderà Paride, i Troiani ci renderanno Elena con tutti i suoi beni, e pagheranno agli Argivi un prezzo così alto che sarà ricordato per generazioni e generazioni. E se Priamo e i suoi figli non vorranno pagare, io mi batterò per avere quel compenso, e rimarrò qui, fino a quando questa guerra non avrà fine.” Così pregò, e poi con un colpo sicuro sgozzò gli agnelli e li depose a terra, palpitanti, morenti. Tutti i principi bevvero alla grande coppa di vino, e tutti pregarono i loro dei. E dicevano tra loro “Se qualcuno mai oserà violare i patti, che Zeus versi il suo cervello e quello dei suoi figli come noi versiamo questo vino!”. Quando tutto fu compiuto, Priamo, il vecchio re, il vecchio padre, salì sul carro, al fianco di Antènore, e disse ai Troiani e agli Achei: “Lasciatemi tornare nella mia città, battuta dai venti. Perché non ho cuore di vedere mio figlio Paride battersi, qui, con il feroce Menelao”. Spronò i cavalli, lui stesso, e se ne andò via.

Poi, fu il duello. Ettore e Ulisse disegnarono per terra il campo su cui i duellanti avrebbero combattuto. Poi misero in un elmo le tessere della fortuna, e dopo averle scosse, Ulisse, senza guardare, estrasse il nome di chi avrebbe avuto  diritto a scagliare per primo la lancia mortale. E la sorte scelse Paride. I guerrieri si sedettero tutt’intorno. Vidi Paride, il mio nuovo sposo, indossare le armi: prima le belle gambiere, allacciate con fibbie d’argento; poi la corazza, sul petto; e la spada di bronzo, borchiata d’argento e lo scudo, grande e pesante. Si pose sul capo lo splendido elmo: la lunga criniera ondeggiava al vento e faceva paura. Infine prese la lancia, e la strinse in pugno. Di fronte a lui, Menelao, il mio vecchio sposo, finì di indossare le sue armi. Sotto gli occhi dei due eserciti, avanzarono uno verso l’altro, guardandosi con ferocia. Poi si fermarono. E il duello iniziò. Vidi Paride scagliare la sua lunga lancia. Con violenza si conficcò nello scudo di Menelao, ma il bronzo non si squarciò, e la lancia si ruppe e cadde a terra. Allora Menelao sollevò a sua volta la lancia e la scagliò con forza enorme contro Paride. Centrò in pieno lo scudo e la punta mortale lo squarciò, e andò a infilarsi nella corazza colpendo di striscio Paride, al fianco. Menelao estrasse la spada e gli balzò addosso. Lo colpì con violenza sull’elmo, ma la spada si spezzò. Lui imprecò contro gli dei e poi con un balzo afferrò Paride dalla testa, stringendo tra le mani lo splendido elmo chiomato. E iniziò a trascinarlo via così, verso gli Achei. Paride sdraiato, nella polvere, e lui a stringergli l’elmo in una morsa micidiale e a trascinarlo via. Finché la cinghia di cuoio che teneva fermo l’elmo sotto il mento si ruppe, e Menelao si trovò in mano l’elmo, vuoto. Lo alzò al cielo, si voltò verso gli Achei e roteandolo in aria lo gettò in mezzo ai guerrieri. Quando si voltò di nuovo verso Paride, per finirlo, si accorse che era scappato, scomparendo tra le file dei Troiani.
Fu in quel momento che quella donna sfiorò il mio velo e mi parlò. Era una vecchia filatrice, era venuta con me da Sparta, mi cuciva splendide vesti, laggiù. Mi voleva bene, e io avevo paura di lei. Quel giorno, lassù, sul torrione delle porte Scee si avvicinò e a bassa voce mi disse “Vieni, Paride ti aspetta nel suo letto, si è messo le vesti più belle, più che da un duello sembra tornato da una festa”. Io rimasi allibita. “Sciagurata”, le dissi, “Perché vuoi tentarmi? Saresti capace di portarmi anche in capo al mondo, se là ci fosse un uomo che ti è caro. Adesso, perché Menelao ha sconfitto Paride, e vuole riportarmi a casa, vieni da me a tramare inganni... Vacci tu, da Paride, perché non lo sposi, o magari diventi la sua schiava? Io non ci andrò, sarebbe indegno. Tutte le donne di Troia proverebbero vergogna per me. Lasciami stare qui, con il mio dolore.” Allora la vecchia donna mi guardò furente. “Sta’ attenta”, mi disse, “E non farmi arrabbiare. Potrei abbandonarti qui, lo sai, e seminare odio ovunque, fino a quando non ti troveresti a morire di mala morte.” Mi faceva paura, l’ho detto. I vecchi, spesso, fanno paura. Mi strinsi sul capo il velo bianco splendente e la seguii. Stavano tutti guardando giù, verso la piana. Nessuno mi vide. Andai nelle stanze di Paride e lo trovai là. Una donna che l’amava l’aveva fatto entrare a Troia, da una porta segreta, e l’aveva salvato. La vecchia prese un sedile e lo mise proprio davanti a lui. Poi mi disse di sedermi. Io lo feci. Non riuscivo a guardarlo negli occhi. Ma gli dissi: “Così sei scappato dalla battaglia. Vorrei che tu fossi morto là, ucciso da quel guerriero magnifico che è stato io mio primo marito. Tu che ti vantavi di essere più forte di lui... Dovresti tornare là, e sfidarlo ancora, ma sai benissimo che sarebbe la tua fine”. E mi ricordo che Paride, allora, mi chiese di non fargli del male con le mie offese crudeli. Mi disse che Menelao aveva vinto, quel giorno, perché gli dei erano stati dalla sua parte, ma che magari la prossima volta a vincere sarebbe stato lui, perché anche lui aveva degli dei amici. E poi mi disse: vieni qui, facciamo l’amore. Mi chiese se mi ricordavo la prima volta che l’avevamo fatto, sull’isola di Crànae, proprio il giorno dopo che mi aveva rapita. E mi disse: neanche quel giorno io ti ho desiderata tanto come ti desidero adesso. Poi si alzò e andò verso il letto. E io lo seguii.
Lui era l’uomo che in quel momento tutti, laggiù nella pianura, stavano cercando. Era l’uomo che nessuno, né Acheo né Troiano, avrebbe aiutato o nascosto, quel giorno. Era l’uomo che tutti odiavano, come si odia la nera dea della morte.

mercoledì 10 novembre 2010

A tutti noi, benpensanti

Mi sono messa a leggere Carver quasi un anno fa, sotto suggerimento di scrittori che avevano tenuto lezioni nella mia città. Non avevo la minima idea di chi fosse.
Poi ho comprato il libro. S'intitola Vuoi star zitta per favore?.
Dopo il primo racconto ho provato una strana ansia, una forma di disequilibrio, come se fossi sempre stata abituata a costruzioni simmetriche mi trovassi, ora, di fronte ad una struttura sbilenca.
Mi ha presa alla sprovvista. Non avevo idea di come interpretare quello che leggevo.
Ma questa inquietudine, questo disagio mi hanno portato a leggere il pezzo successivo.
E così via. E così via.
Fino a che non mi è rimasta impressa l'impronta dell'autore, che mi insegnava dove respirare, a che velocità leggere, da che parte stare.
Fino a che non ho capito che questo libro, per me, è uno specchio dalle infinite angolature, dove ognuno ci trova dentro la propria natura, senza veli di pudore a nasconderla, senza compassione, senza alcun principio di redenzione.
Ma questo è un libro.
Troviamo il nostro riflesso scritto a caratteri neri sull'inchiostro. Intrappolato e stanco tra le pagine.
Ma l'originale, la creatura che genera simmetria, ciò che ha il potere di cambiare la sua immagine, davanti, è qui, pulsante e vivo. Siamo noi tutti.
E abbiamo estrememante bisogno di occhi inclementi e di dita puntate.

Per farvi capire, Che idea. Pagina 16.
               
Avevamo finito di cenare ed era già un’ora che me ne stavo al tavolo della cucina con le luci spente, in osservazione. Se stasera era quella buona, il momento era questo, anzi era già tardi. Erano tre sere che non si vedeva. Ma stasera le tendine della camera da letto erano alzate, laggiù, e le luci accese.
                Stasera avevo un presentimento.
                Poi l’ho visto. Ha aperto la portafinestra sul retro ed è uscito in veranda con addosso una maglietta e un paio di bermuda, o forse di calzoncini da bagno. Ha dato un’occhiata in giro e poi è saltato giù dalla veranda ed è scivolato nell’ombra, strisciando lungo il fianco della casa. Era veloce. Se non fossi stata attenta, non l’avrei mica visto. Si è fermato davanti alla finestra illuminata e si è messo a guardare dentro.
                - Vern, - ho chiamato. - Vern, corri! È uscito. Sbrigati!
                Vern era in soggiorno a leggersi il giornale con la televisione accesa. L’ho sentito gettare a terra il giornale.
                - Non farti vedere! - ha detto Vern. - Non ti avvicinare troppo alla finestra!
                Vern dice sempre così: «Non ti avvicinare troppo».
Vern si vergogna un po’ di stare a guardare, mi sa. Però so che gli piace. Me l’ha detto.
                - Non ci può vedere con la luce spenta -. È quello che dico sempre io. Ormai sono tre mesi che va avanti questa storia. Dal 3 settembre, per l’esattezza. O almeno, quella è stata la prima sera che l’ho visto là fuori. Va’ a sapere da quanto tempo lo faceva prima di allora.
                Quella sera a momenti mi attacco al telefono per chiamare lo sceriffo, finché non ho capito di chi si trattava. Ha dovuto spiegarmelo Vern. Anche dopo, comunque, c’è voluto un bel po’ prima che mi entrasse in testa. Comunque, dopo quella sera, mi sono messa a guardare e vi posso assicurare che in media lo fa una volta ogni due o tre sere, o anche di più. L’ho visto là fuori anche con la pioggia. Anzi, se piove puoi star certo che lo vedi. Però stasera era sereno e tirava vento. C’era una bella luna.
                Ci siamo inginocchiati dietro la finestra e Vern si è schiarito la gola.
                - Guardalo un po’ là, - ha detto Vern. Stava fumando e ogni tanto si faceva cadere la cenere in mano. Quando faceva un tiro, teneva la sigaretta lontana dalla finestra. Vern fuma di continuo; non c’è verso di farlo smettere. Ci dorme pure, con un posacenere a dieci centimetri dalla testa. Quando di notte non riesco a dormire, lo vedo che si sveglia per fumare.
                - Per Dio, - ha detto Vern.
                - Ma che mai avrà quella di tanto speciale? - ho chiesto a Vern dopo un po’. Eravamo accovacciati sul pavimento e sporgevamo sopra il davanzale solo la testa, per spiare un uomo che se ne stava in piedi fuori dalla finestra della sua camera da letto per spiarci dentro.
                - Infatti, - ha detto Vern. Si è schiarito la gola proprio vicino al mio orecchio.
                Abbiamo continuato a guardare.
                Vern aveva ancora gli occhiali per leggere e così riusciva a vedere meglio di me. All’improvviso la tenda si è scostata e la donna si è girata con le spalle verso la finestra.
                - E adesso che fa? - ho chiesto, anche se lo sapevo benissimo. - Per Dio, - ha esclamato Vern.
                - Insomma, Vern, che fa? - ho chiesto.
                - Si sta spogliando, - ha risposto Vern. - Cos’altro credi che faccia?
                Poi la luce della camera da letto si è spenta e l’uomo si è rimesso a strisciare lungo il fianco della casa. Ha riaperto la porta ed è scivolato in casa e poco dopo si sono spente anche le altre luci.

                Vern ha tossito più volte e poi ha scosso la testa. Ho acceso la luce, Vern è rimasto inginocchiato vicino alla finestra. Poi si è rialzato e si è acceso una sigaretta.
                - Un giorno di questi glielo dico io a quella troia cosa penso di lei, - ho detto io, guardando Vern.
                Vern è sbottato in una specie di risata.
                - Sul serio, - ho detto. - Un giorno di questi che la incontro al supermercato glielo dico in faccia.
                - Fossi in te non lo farei. Che glielo dici a fare? - ha detto Vern.
                Ma l’ho capito subito che non mi prendeva sul serio. Ha aggrottato la fronte e ha cominciato a guardarsi le unghie. Si è passato la lingua sui denti e ha strizzato gli occhi come fa quando si concentra. Poi ha cambiato espressione e si è grattato il mento. - Non faresti mai una cosa del genere, - ha detto.
                - Be’, vedrai, - ho detto io.
                - Merda, - ha detto Vern.
                L’ho seguito in soggiorno. Avevamo i nervi a fior di pelle. Ci fa sempre quest’effetto.
                - Tu aspetta e vedrai, - ho ripetuto.
                Vern ha schiacciato la cicca nel posacenere grande. È rimasto impalato vicino alla poltrona di pelle e per un minuto ha guardato la televisione.
                - Non c’è mai niente da vedere, - ha detto. Poi ha aggiunto qualcos’altro. Ha detto: - Magari ha ragione lui -. Si è acceso un’altra sigaretta. - Non si sa mai.
                - Se qualcuno s’azzarda a venire a spiare dentro la mia finestra, - ho detto, - se la vedrà con la polizia. A meno che non si tratti di Cary Grant.
                Vern ha alzato le spalle. - Non si sa mai, - ha ripetuto.
                Mi si è risvegliato l’appetito. Sono andata a guardare nello sportello della credenza, poi ho aperto il frigorifero.
                - Vern, ti va qualcosa da mangiare?
Non mi ha risposto. Ho sentito l’acqua scorrere in bagno. Comunque ho pensato che magari anche a lui gli andava qualcosa. A quest’ora di sera ci viene sempre fame. Ho messo pane e affettati sul tavolo e ho aperto un barattolo di minestra. Ho tirato fuori anche i cracker e il burro di arachidi, il polpettone freddo, i sottaceti, le olive e le patatine. Ho sistemato tutto sul tavolo. Poi mi sono ricordata della torta di mele.
Vern è tornato con addosso il pigiama di flanella e la vestaglia. Aveva i capelli bagnati e pettinati all’indietro e profumava di acqua di colonia. Ha detto: - Magari dei cereali con lo zucchero grezzo? - Poi si è seduto e ha spalancato il giornale accanto al suo piatto.
Abbiamo fatto il nostro spuntino. Il posacenere si è riempito dei noccioli delle olive e delle cicche di Vern.
Appena ha finito, ha sorriso e ha chiesto: - Che cos’è quest’odorino?
Sono andata al forno e ho tirato fuori due fette di torta di mele con il formaggio fuso sopra.
- Ha un aspetto niente male, - ha detto Vern.
Dopo un po’, ha aggiunto: - Non posso più mandar giù niente. Me ne vado a letto. - Vengo anch’io, - ho detto. - Prima però sparecchio.
Ero lì che svuotavo gli avanzi nella pattumiera quando ho visto le formiche. Ho guardato meglio. Venivano da qualche parte sotto le tubature del lavello in un flusso regolare, salivano da una parte del secchio e scendevano dall’altra in un andirivieni continuo. Sono andata a prendere l’insetticida dentro il cassetto e ho cominciato a spruzzare dentro e fuori la pattumiera e sotto i tubi fin dove arrivavo. Poi mi sono lavata le mani e ho dato un’ultima occhiata alla cucina.
Vern si era già addormentato e ronfava. Tra qualche ora si sarebbe svegliato, sarebbe andato in bagno e si sarebbe messo a fumare. Il televisore piccolo ai piedi del letto era acceso, ma il quadro sfarfallava.
Avrei voluto dirgli delle formiche.
Mi sono preparata con calma, ho regolato la televisione e mi sono ficcata sotto le coperte. Vern faceva i versacci che fa sempre quando dorme.
Ho guardato la televisione per un po’, ma davano un talk show e a me i talk show non piacciono. Mi sono messa a ripensare alle formiche.
Dopo un po’ ero lì che me le immaginavo in casa dappertutto. Mi sono chiesta se era il caso di svegliare Vern per dirgli che avevo fatto un brutto sogno. Invece mi sono alzata e sono andata a riprendere la bomboletta dell’insetticida. Ho guardato di nuovo sotto il lavello. Ma non s’era rimasta più neanche una formica. Ho acceso tutte le luci in casa finché praticamente sfavillava.
Ho continuato a spruzzare l’insetticida.
Alla fine ho alzato la tapparella della cucina e ho guardato fuori. Era tardi. Tirava vento e ho sentito dei rami che si spezzavano. - Quella troia! - ho detto. - Che idea!
Ho detto cose anche peggiori, cose che non posso ripetere.

venerdì 5 novembre 2010

Le cose che non vogliamo sapere

Charles Bukowski.
Un pazzo, forse. O un poeta. Un ubriacone. O un uomo che dice la verità.
Il suo racconto che vi propongo, in versione integrale, va letto con attenzione e senza aver fretta.
Quindi: mettetevi comodi.
Non guardate l'orologio.
Lasciate che le immagini vi scorrano dentro agli occhi.
E basta.
Signore e signori, La vendetta dei dannati (Niente canzoni d'amore).


Nel dormitorio dei falliti il russare era fortissimo, come al solito. Tom non riusciva a dormire. Dovevano esserci sessanta cuccette, ed erano tutte occupate. Gli ubriachi russavano più forte, e la maggior parte di quelli che stavano lì erano ubriachi. Tom si alzò a sedere e guardò il chiaro di luna entrare dalle finestre e cadere sugli uomini addormentati. Si preparò una sigaretta, e l’accese. Tornò a guardare gli altri uomini. Che branco di brutti coglioni inutili e cazzoni. Anzi, altro che cazzoni. Le donne non gli vogliono. Non li vuole nessuno. Non valgono un cazzo, ah, ah, ah, e lui era uno di loro. Tirò fuori la bottiglia da sotto il cuscino e si fece l’ultimo. L’ultimo goccio era sempre il più triste. Infilò il vuoto sotto la cuccetta e guardò di nuovo gli uomini che russavano. Manco a tirargli la bomba atomica, non ne valeva la pena.
                Tom si voltò verso il suo amico, Max, sulla cuccetta accanto. Max se ne stava disteso con gli occhi aperti. Era morto?
                “Ehi, Max!”
                “Uh?”
                “Non dormi?”
                “Non riesco. Hai notato? Molti di loro russano a tempo. Come mai?”
                “Non so, Max. C’è un sacco di cose che non so.”
                “Anch’io, Tom. Mi sa che sono scemo.”
                “Ti sa soltanto? Se sapessi con certezza di essere scemo, allora saresti furbo.”
                Max si arrotolò una sigaretta e l’accese.
                Max stava male, stava sempre male quando si metteva a pensare alle cose. La cosa da fare era smettere di pensare, chiudere tutte le porte.
                “Ehi, Max,” sentì la voce di Tom.
                “Sì?”
                “Ho pensato...”
                “Pensare è una stronzata...”
                “Ma io sto sempre a pensare a questa cosa.”
                “Ti è rimasto un goccetto?”
                “No, scusa. Ma senti...”
                “Merda secca, non voglio sentire!”
                Max si stese di nuovo sul lettino. Chiacchierare non serviva a nulla. Era uno spreco.
                “Guarda che te lo dico lo stesso, Max.”
                “OK, cazzo, dài...”
                “Tu li vedi, tutti questi tizi? Ce n’è un sacco, no? Barboni da tutte le parti.”
                “Certo, e quanto sono brutti...”
                “Insomma, Max, io sto tutto il tempo a pensare a come si potrebbe utilizzare tutto questo materiale umano. Così è semplicemente sprecato!”
                “Ma questi barboni non li vuole nessuno. Che cosa ci puoi fare, con loro?”
                Tom si sentì vagamente eccitato.
                “Il fatto che questi non li vuole nessuno, è tutto a nostro vantaggio.”
                “Ma sei proprio sicuro?”
                “Certo. Vedi, in prigione non ce li vogliono perché poi gli tocca dargli da mangiare e da dormire. E tutti questi barboni non hanno un posto dove andare e niente da perdere.”
                “E allora?”
                “Ho pensato un sacco, la notte. Tipo: se potessimo metterli tutti insieme, come una mandria, li potremmo lanciare alla carica da qualche parte. E prendere noi il controllo, per un po’, di certe situazioni...”
                “Tu sei pazzo,” disse Max.
                Però si alzò a sedere sul lettino.
                “Dimmi qualcosa di più...”
                Tom rise. “Beh, magari sono matto, ma continuo a pensare a questo spreco di materiale umano. Sono rimasto qui sveglio la notte a sognare le cose che ci si potrebbe fare...”
                Ora fu Max a ridere. “Ma tipo cosa, per amor di Dio?”
                La loro conversazione non disturbava nessuno. Intorno, tutti continuavano a russare.
                “Beh, è una specie di cosa che continua a girarmi in testa da un pezzo. Sì, può darsi benissimo che sia pazzo. Comunque...”
                “Sì?” chiese Max.
                “Non ridere. Magari il vino mi ha mangiato il cervello.”
                “Cercherò di non ridere.”
                Tom tirò una boccata dalla sigaretta, poi espirò. “Beh, vedi, mi viene in testa questa visione di tutti i barboni che riusciamo a trovare che scendono giù per Broadway, proprio qui a Los Angeles, tutti quanti, in mucchio, che vengono avanti...”
                “Beh, e allora?”
                “Beh, è un casino di gente. Tipo, la vendetta dei dannati. Un corteo di scarti umani. Sembra quasi una specie di film. È come se vedessi le macchine da presa, le luci, il regista. La Marcia degli Sconfitti. L’Insurrezione dei Morti! Accidenti, è proprio forte!”
                “Io credo” disse Max “che dovresti proprio lasciar perdere il porto e tornare al vino bianco e basta.”
                “Tu dici, eh?”
                “Sì. OK, insomma, così abbiamo tutti questi barboni che vengono avanti per Broadway, per l’ora diciamo tipo a mezzogiorno, mezzogiorno di fuoco, e allora?”
                “Beh, allora li portiamo fino al più grosso e più assurdo dei grandi magazzini alla moda della città...”
                “Vuoi dire Bowarms?”
                “Sì, Max. Da Bowarms c’è tutto: i vini migliori, i vestiti più belli, orologi, radio, tivù, tutto quello che vuoi, tu di’ che cosa vuoi e quelli ce l’hanno...”
                Proprio allora un vecchio, qualche lettino più in là, si tirò su a sedere, spalancò al massimo gli occhi, e strillò: “Dio è una negra lesbica di duecento chili!”.
                Poi ricascò sul suo lettino.
                “Quello là ce lo portiamo?” chiese Max.
                “Come no? Lui è uno dei migliori. Quale prigione vuoi che se lo prenda?”
                “Ok, allora entriamo dentro Bowarms. E poi?”
                “Cerca di immaginartelo visivamente. Si tratta giusto di entrare e poi di uscire. Saremo in troppi perché le guardie della sicurezza possano fermarci. Immagina: noi ci mettiamo semplicemente a prendere, e basta. Magari puoi pure dare un pizzicotto al culo di una delle commesse. Qualsiasi pezzo del sogno che non abbiamo più, te lo prendi e via, prendi qualsiasi cosa, prendi tutto quello che vuoi. E poi via, ce ne andiamo.”
                “Tom, potrebbero esserci un sacco di teste rotte. Non sarà mica un picnic nel paese delle meraviglie...”
                “No, ma neppure la vita che facciamo lo è! Ci stiamo lasciando seppellire vivi, per sempre, senza nemmeno una protesta...”
                “Tom, caro mio, mi sa che hai fatto proprio una bella pensata. Ora, come facciamo a organizzarla, questa storia?”
                “Bene, prima di tutto stabiliamo un giorno e un’ora. Poi, tu conosci una dozzina di tipi da poter schierare?”
“Direi di sì.”
“Anch’io ne conosco una dozzina.”
“E se qualcuno parla con la polizia?”
“Improbabile. E poi, che abbiamo da perdere?”
“Giusto.”

Era mezzogiorno passato. Tom e Max camminavano in testa alla banda. Venivano giù per Broadway, a Los Angeles. C’erano più di cinquanta barboni che camminavano in gruppo dietro Tom e Max. Cinquanta e più barboni che strizzavano gli occhi, barcollavano, non erano granchè sicuri di che cosa stava succedendo. I normali cittadini, i passanti, erano stupefatti. Si fermavano, si spostavano di lato, e guardavano. Certi erano spaventati, certi ridevano. Altri pensavano fosse uno scherzo, o un film in lavorazione. Il trucco era perfetto: gli attori sembravano dei veri barboni. Ma le macchine da presa, dov’erano?
                Tom e Max guidavano la marcia.
                “Senti, Max, io ne ho chiamati solo otto. Tu a quanti l’hai detto?”
                “Forse nove.”
                “Io vorrei sapere, ma che cazzo è successo?”
                “Devono essersi passati parola fra loro...”
                Continuarono ad andare avanti. Era come un sogno assurdo e impossibile a fermarsi. All’angolo della Settima Strada, il semaforo scattò sul rosso. Tom e Max si fermarono e tutti i barboni si ammucchiarono dietro aspettando. Un odore fatto di calzini e biancheria non lavata, di alcolici e aliti maleodoranti, si diffuse all’intorno in un istante. Il dirigibile della Goodyear descriveva circoli senza scopo, là in alto. Lo smog si posava, grigio-bluastro, sulle strade.
                Poi scattò il verde. Tom e Max fecero un passo avanti. I barboni gli andarono dietro.
                “Anche se me l’ero immaginato,” disse Tom “non riesco a credere che sta succedendo davvero.”
                “Eppure sta succedendo” fece Max.
                I barboni erano così tanti che qualcuno stava ancora attraversando la strada quando tornò a scattare il rosso. Ma loro continuarono a passare, bloccando il traffico, alcuni con una bottiglia di vino in mano, o in bocca. Marciavano e avanzavano, ma senza una canzone di battaglia o un inno. Solo il silenzio, a parte il rumore di suole consumate sul marciapiede. Solo ogni tanto qualcuno diceva qualcosa.
                “Ehi, ma dove cazzo stiamo andando?”
                “Dammi un goccio di quella roba!”
                “Vaffanculo!”
                Il sole splendeva e bruciava.
                “Dobbiamo davvero andare avanti  con questa cosa?” chiese Max.
                “Mi sentirei male di brutto se tornassimo indietro proprio adesso,” dichiarò Tom.
                Poi si trovarono davanti a Bowarms.
                Tom e Max si fermarono un istante.
                Poi, insieme, avanzarono e passarono attraverso le imponenti porte di vetro.
                La massa di barboni li seguì, in una lunga fila di stracci. Avanzarono verso i saloni lussuosi. Gli inservienti li osservarono, senza realmente capire.
                Il reparto maschile era al primo piano.
                “Ora,” disse Tom “dobbiamo dare un esempio.”
                “Già,” disse Max, incerto.
                “Dài, Max, forza!”
                “Uh, uh...”
                I barboni si erano fermati e li osservavano. Tom esitò un momento, poi andò alla sbarra dov’erano appesi i cappotti e ne sfilò via il primo, un modello in cuoio giallo con il collo di pelliccia. Lasciò cadere il suo vecchio cappotto e si infilò nel nuovo. Si avvicinò uno degli impiegati del grande magazzino, un tipetto tutto lindo con dei baffetti ben curati.
                “Desidera qualcosa, signore?”
                “No, Espresso Cinese.”
                “E io prendo questo,” disse Max infilandosi in uno strano modello  in pelle di alligatore con tasche laterali, e un cappuccio orlato di pelliccia contro la pioggia.
                Tom prese un cappello da uno scaffale, un copricapo in stile cosacco, piuttosto ridicolo ma piacevole.
                “Questo va benissimo con la mia carnagione. Lo prendo.”
                E a quel punto i barboni si misero in moto. Avanzarono, e cominciarono a mettersi cappotti e cappelli, e poi sciarpe, impermeabili, scarpe, maglioni, guanti e accessori vari.
                “Contanti o carta di credito, signore?” chiese una voce spaventata.
                “Mettiti in conto a tua sorella, stronzo!”
                Oppure, a un altro bancone:
                “Questo mi pare che le vada bene, signore.”
                “Ho il diritto di tornare a cambiarlo?”
                “Ovviamente, signore. Entro quattordici giorni.”
                “Sì, ma tu tra quattordici giorni magari sarai morto.”
                Poi dal soffitto cominciò a suonare un allarme. Qualcuno si era reso conto che era iniziata un’invasione. I clienti che erano rimasti increduli a guardare cominciarono a disperdersi.
                Giunsero di corsa tre uomini, con dei vestiti grigi mal tagliati. Erano grossi, ma con più grasso che muscoli. Si lanciarono sui barboni come per portarli via di peso. Ma ce n’erano semplicemente troppi. I tre vennero completamente sommersi. Mentre lottava, però, tra bestemmie e minacce, una delle guardie giurate tirò fuori la pistola. Si udì uno sparo, ma era stato un gesto stupido e inutile, e l’uomo venne disarmato in fretta.
                All’improvviso si vide un barbone in cima alla scala mobile. Con la pistola. Era ubriaco. Non aveva mai avuto in mano una pistola, prima di allora. Però la pistola gli piaceva. Prese la mira e sparò. Prese un manichino. La pallottola gli attraversò il collo. La testa finì per terra: morte di uno sciatore alla moda.
                La morte dell’oggetto sembrò ridestare i barboni. Si levò un potente grido di giubilo. Presero per le scale mobili e si dispersero per tutto il magazzino. Si misero a lanciare grida insensate. Per un momento, ogni senso di frustrazione e di fallimento scomparve. Avevano occhi brillanti, e movimenti rapidi. Era una scena strana, sgradevole e assurda.
                Si muovevano in fretta da un piano all’altro, o da un reparto all’altro.
                Tom e Max avevano smesso di guidarli, ormai venivano trascinati.
                Cominciavano a venir rovesciati dei banconi, mentre degli specchi finivano in frantumi. Al banco dei cosmetici una ragazza giovane e bionda lanciò un grido, alzando in aria le braccia. Ciò attirò l’attenzione di uno dei barboni più giovani, che le tirò su il vestito e strillò: “Uau!”.
                Si avvicinò un altro barbone, che afferrò la ragazza.
Poi ne arrivò di corsa un altro. Ben presto una vera e propria banda la circondò, strappandole il vestito di dosso. Era davvero orribile. Eppure, ispirò degli altri barboni, che cominciarono a inseguire le commesse.
                “Gesù santissimo!” Tom esclamò.
                Tom riuscì a trovare un bancone intatto. Ci salì sopra e cominciò a urlare: “No! Questo no! Basta! Io non volevo questo!”
                Max era lì accanto a Tom.
                “Ah, merda,” disse piano.
                I barboni non si fermarono. Strapparono tende. Rovesciarono tavoli. Fracassarono altri banconi di vetro. Si udirono delle grida acute. Qualcosa si ruppe fragorosamente.
                Poi dardeggiò una lingua di fiamma, ma loro continuarono il saccheggio.
                Tom balzò giù dal suo bancone. L’intero episodio era durato meno di cinque minuti. Guardò in faccia Max.
                “Andiamo via da questo cazzo di posto!”
                Un altro sogno mandato in merda, un altro cane che crepa in strada, altri incubi di spazzatura.
                Tom si mise a correre e Max lo seguì. Presero la scala mobile e scesero. Tom e Max avevano ancora addosso i cappotti nuovi. Tolte le facce rosse e non rasate, sembravano quasi delle persone rispettabili. Al primo piano, si mischiarono alla folla. Alle porte c’era la polizia. Lasciavano uscire la gente ma non permettevano a nessuno di entrare.
                Tom aveva fregato una manciata di sigari. Ne passò uno a Max.
                “Dài, accendilo. Cerca di avere l’aria di una persona perbene.”
                Tom accese un sigaro per sé.
                “Ora, vediamo se riusciamo a uscire di qui.”
                “Secondo te li freghiamo, Tom?”
                “Boh. Cerca di avere l’aria di bancario, di un dottore...”
                “E che aria hanno?”
                “Stupida e soddisfatta.”
                Si mossero verso l’uscita. Non ebbero alcun problema. Vennero guidati fuori insieme a qualche altra persona. Sentirono dei colpi di arma da fuoco all’interno. Si voltarono a guardare l’edificio. Da una finestra in alto si vedevano uscire le fiamme. Poco dopo sentirono l’urlo delle sirene in arrivo.
                Presero verso sud per tornare ai quartieri bassi.

Quella notte loro due erano i due barboni meglio vestiti di tutto il dormitorio. Max era persino riuscito a rubare un orologio. Le lancette brillavano nel buio. La notte era appena all’inizio. Si distesero sui lettini mentre tutt’intorno cominciavano a russare.
                Era di nuovo tutto pieno, malgrado la massiccia retata del pomeriggio. Di barboni ce n’erano tanti da poter riempire ogni spazio libero.
                Tom tirò fuori due sigari e ne passò uno a Max. Li accesero e fumarono per un poco in silenzio. Dopo qualche minuto parlò Tom.
                “Ehi, Max...”
                “Sì?”
                “Non era così che doveva andare.”
                “Lo so. Ma va bene lo stesso.”
                Quelli avevano preso a russare sempre più forte, gradualmente. Tom tirò fuori da sotto il cuscino una nuova bottiglia da un quinto di vino. L’aprì e ne prese un sorso.
                “Max?”
                “Sì?”
                “Bevi?”
                “Certo.”
                Tom passò la bottiglia. Max ne prese un sorso e gliela restituì.
                “Grazie.”
                Tom fece scivolare la bottiglia sotto il cuscino.
                Era vino bianco.