lunedì 23 settembre 2013

Brucia

Mi disse Non preoccuparti, e poi lanciò lo sguardo in mezzo al prato. Non veniva ancora nessuno, ma dal palpitare delle spighe sentivo salirmi addosso una vibrazione. Respiravamo forte e non c’era rumore. Mi batteva il cuore, lo sentivo e pensavo Allora è questo, è così che ci si sente.
Mi disse Tutti i nodi vengono al pettine, e la sua voce era stanca. La vibrazione stava quasi alle ginocchia e la sentivo ronzare attraverso le api e i calabroni. Feci sì con la testa e tornammo a frugare con gli occhi nel verde.
Dici che ci scopriranno? questa, la mia voce. Spezzava in verticale le linee orizzontali dei vento e dei fruscii. Era una voce appena svegliata, una voce spinta dalla pancia. Allora lui fece un gesto con la mano, un gesto che voleva dire Fermati, e anche Finito, e anche Liscio. Poi indicò una cosa in mezzo al verde.
 

Mi ritrovai per terra, un sasso mi feriva la schiena e il suo corpo mi copriva. Non preoccuparti, mi disse, e stavolta lo disse piano, e la sua voce era come quella di chi è già partito. Lo sentivo respirare, la sua pancia si gonfiava e premeva la mia, avevo male la schiena.
E poi sentimmo l’odore.
Si infilò tra l’erba di soppiatto e mi chiamò soffiando nel mio naso.
Dissi Brucia. O forse lo pensai.
E ci guardammo, i suoi occhi di chi ha già visto e non sa più stupirsi.
Disse Brucia.
E forse c’era sollievo, nell’aria che gli usciva dalla bocca.

martedì 17 settembre 2013

Il risveglio

Qualche volta succede che qualcuno ti porta un libro.
Sei lì indifeso, e non te l'aspetteresti, ma lui te lo consegna in mano.
Ti parla della sua personale esperienza con quella storia, ma tu non ci fai tanto caso, perché tieni il libro tra le mani, e quel peso leggero un po' ti spaventa. Pensi "e se non mi piace?", "non ho tempo, adesso, con tutto quello che ho da fare", pensi "devo stare attento a non perderlo".
Poi però, certe volte, quando sei a casa ti viene voglia di aprirlo. Così.
Inizi a leggerlo, e non pensi più a niente.
Le righe scivolano una dopo l'altra, e qualcosa si sblocca dentro.

Con questa storia mi è successo così.
E spero che, magari, possa accadere anche a qualcuno tra voi.
Eccovi Siddharta, Hermann Hesse.



"Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, il Perfetto, e nel quale rimaneva Govinda, allora egli sentì che in questo boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e si separava da lui. Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli venne riflettendo mentre s’allontanava a lento passo. Profondamente vi pensò, come attraverso un’acqua profonda si lasciò cadere fino al fondo di questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere le cause ultime, questo appunto è pensare - così gli pareva - e solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò che in esse è contenuto.

Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva abbandonato, così come il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia pelle, che una cosa non era più presente in lui, che l’aveva accompagnato durante tutta la sua giovinezza, e gli era appartenuta: il desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine. L’ultimo maestro che era apparso sulla sua strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più santo di tutti, il Buddha, anche questo egli l’aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina.

Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva frattanto: «Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a insegnarti?». Ed egli trovò: «L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potevo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch’io vivo, d’essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, d’essere Siddharta!»

Colpito da questo pensiero s’arrestò improvvisamente nel suo lento cammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un altro, che suonava: «Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L’Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso».

Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno, un sorriso gli illuminò il volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da lunghi sogni, lo percorse fino alla punta dei piedi. E appena si rimise in cammino, correva in fretta, come un uomo che sa quel che ha da fare.

«Oh!» pensava respirando profondamente «ora Siddharta non me lo voglio più lasciar scappare! Basta! cominciare il pensiero e la mia vita con l’Atman e col dolore del mondo! Basta! uccidermi e smembrarmi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più lo Yoga-Veda a istruirmi, né l’Atharva-Veda, né gli asceti, né alcuna dottrina. Dal mio stesso Io voglio andare a scuola, voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero  che ha nome Siddharta».

Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era il mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna, tutto bello, tutto enigmatico e magico, e in mezzo v’era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e bosco penetrava per la prima volta attraverso la vista in Siddharta, non era più l’incantesimo di Mara, non era più il velo di Maya, non era più insensata e accidentale molteplicità del mondo delle apparenze, spregevole agli occhi del Brahmino, che, tutto dedito ai suoi profondi pensieri, scarta la molteplicità e solo dell’unità va in cerca. L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume, e anche se nell’azzurro e nel fiume vivevan nascosti come in Siddharta l’uno e il divino, tale era appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose erano non in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.

«Come sono stato sordo e ottuso!» pensava, e camminava intanto rapidamente. «Quand’uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore di un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta».

Mentre rivolgeva tali pensieri, si fermò tuttavia improvvisamente, come se un serpente fosse apparso sulla strada davanti ai suoi piedi. Poiché improvvisamente anche questo gli si era rivelato: egli, che nella realtà si trovava come un risvegliato o come un nuovo nato, doveva ricominciare interamente la sua vita. Ancora in quello stesso mattino, quando aveva lasciato Jetavana, il boschetto di quel Sublime, era già in atto di ridestarsi, già era sulla strada che riconduce a se stesso, era stata sua intenzione e gli era apparso perfettamente ovvio e naturale, dopo gli anni del suo noviziato ascetico, far ritorno a casa sua, da suo padre. Ma ora per la prima volta, proprio in quell’istante in cui egli s’era arrestato come se un serpente giacesse sulla sua strada, s’era destata in lui anche questa idea: «Io non sono più quel che ero, non sono più eremita, non sono più prete, non sono più Brahmino. Che dunque vado a fare a casa di mio padre? Studiare? Offrire sacrifici? Praticare la concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si trova più sul mio cammino». Immobile restò Siddharta, e per un attimo, la durata di un respiro, un gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì gelare nel petto come una povera bestiola, un uccello o un leprotto, quando s’accorse quanto fosse solo. Ora lo sentiva. Sempre, finora, anche nella più profonda concentrazione, egli era rimasto il figlio di suo padre, era stato Brahmino, d’alto ceto, un sacerdote. Adesso non era più che Siddharta, il risvegliato, e nient’altro. Trasse un profondo sospiro, e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì. Nessuno era così solo come lui. Non v’era un nobile che non appartenesse all’ambiente dei nobili, non v’era un manovale che non appartenesse all’ambiente dei manovali; e fra i loro pari tutti trovano ricetto, ne condividevano la vita, ne parlavano la lingua. Non v’era un Brahmino che non fosse annoverato tra i suoi colleghi e non vivesse con loro, non v’era un eremita che non potesse trovare ricetto nella società dei Samana, e anche il più sperduto solitario della foresta non era uno e solo, anche lui era circondato da aderenti, anche lui apparteneva a una categoria che gli faceva da patria. Govinda s’era fatto monaco, e mille monaci erano suoi fratelli, portavano un abito come il suo, condividevano la sua fede, parlavano il suo linguaggio. Ma lui, Siddharta, a quale comunità apparteneva? Di chi condivideva la vita? Di chi avrebbe parlato il linguaggio?

Da questo momento in cui il mondo circostante parve disciogliersi intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato come in cielo una stella solitaria, da questo momento di gelo e di sgomento Siddharta emerse, più di prima sicuro del proprio IO, vigorosamente raccolto. Lo sentiva: questo era stato l’ultimo brivido del risveglio, l’ultimo spasimo del nascimento. E tosto riprese il suo cammino, mosse il passo rapido e impaziente, non più verso casa, non più verso il padre, non più indietro."

giovedì 11 aprile 2013

Far durare la felicità




C'è un signore che ha fatto una magia.
Ha cercato di trasformare qualcosa di brevissimo, che dura un solo momento (la felicità), in qualcosa di lunghissimo, che può durare decine e decine di anni. Cioè un libro.
Questo signore si chiama Valerio Millefoglie, e il suo libro magico è L'attimo in cui siamo felici.L'idea gli è nata un giorno, ha stampato dei volantini e ha cominciato a distribuirli dappertutto.
In questi volantini c'era scritto:

"Ricerco la felicità. Non la mia. La tua. Ricerco la tua felicità. Pensi di non averla eppure ce l'hai. Non mi riferisco solo alle grandi felicità come l'incontro con l'anima gemella o la scalata alla vetta più alta che c'è. M'interessano le felicità quotidiane: un caffé con un amico, una telefonata inaspettata, tornare a casa la sera, aprire il frigo e invece di un pomodoro trovarne due.
Ti fornirò apposite schede su cui segnare i tuoi momenti di gioia nell'arco di una settimana. Al termine della compilazione ci incontreremo e realizzerò un'intervista basata sulle tue gioie. L'intervista diventerà una cartella clinica, un ritratto di felicità a cui gli altri, in questo caso io, potranno accedere e attingere nei momenti di sconforto. Per offrirti contatta..."
E quindi ecco a voi un pezzetto di felicità di un volontario, Alfie.
Che può sempre servire.


                Alfie cammina in stivali pitonati. Indossa jeans slavati e ha muscoli che gli modellano maglie e camicie. Per un certo periodo passeggiava per la città e si vedeva gigante sui cartelloni pubblicitari.
                Una volta l’ho riconosciuto in una sitcom.
                Con i suoi stivali pitonati se ne va ovunque e in qualsiasi dimensione, senza paura.
                Si sveglia alle cinque del mattino, ma comincia a lavorare solo a mezzogiorno. Si sveglia così presto per scrivere.
                Dopo tanti giorni che si svegliava alle cinque ha finito un poema in cui si chiede che fine avrebbero fatto eroi epici come Achille o Enea se avessero avuto bisogno del permesso di soggiorno.
                Sono subito incuriosito dalle prime caselle che leggo sulla scheda: «Sofia Irene, tre mesi di vita, guarda la tv», «Sofia Irene fa stretching e guarda fuori la finestra», «Lunga conversazione con Sofia Irene».
                Gli chiedo come s’instaura un dialogo con una bambina di tre mesi.
                Di cosa dialogavate?
                Quel giorno avevo sentito mia madre per telefono dalla Nigeria, mi aveva detto: «Trattala bene perché ha fatto un lungo viaggio». Secondo le nostre credenze anche se mia figlia è nata in Italia, la sua anima viene dalla Nigeria. Un uomo per essere completo, per assicurarsi la reincarnazione, deve procreare. Ogni figlio è una persona della tua famiglia che non c’è più. Quando è nata Sofia Irene mia madre è andata dal divinatore per sapere chi fosse nella vita passata. Il divinatore ha detto che era mia sorella. Mia sorella è scomparsa nell’83, io non ho mai visto il suo corpo e per dieci, quindici anni la sognavo continuamente, per strada ero sempre attento, la vedevo in ogni ragazza che passava e quando mia madre quel giorno mi ha detto questo per telefono mi sono commosso, sai, non è che io ci creda davvero, però... tornato a casa mi sono messo sul divano e le ho parlato.
                In che lingua?
                Nell’igbo.
                Cosa vi siete detti?
                Le ho detto: «Come stai? Come va? Come mai hai scelto me?», e lei mi capiva, sorrideva, vedevo che mi capiva. Mi guardava e mi diceva che era molto felice.
                Il divinatore che ha detto di te, chi eri?
                Io ho un fratello e già nella vita passata eravamo fratelli. Io l’opprimevo così lui disse: «Nella vita futura prevarrò su chiunque». Così è stato.

                Mi spieghi questi cinque minuti di felicità: «L’amore, l’amica, il marito, la sedia a rotelle»?
                Ho un’amica, ci incontravamo spesso e mi parlava di un uomo che aveva incontrato. Diceva cose bellissime su di lui, lo dipingeva come... come... come sui giornali descrivono l’attore più bello che c’è. Poi è andata a viverci insieme fuori città perché le scale di casa di lei erano d’impedimento all’amore.
                In che senso?
                Mi diceva che lui aveva certi problemi a camminare. Finalmente qualche settimana fa l’ho conosciuto, sono andato a trovarli a casa e ho scoperto che lui è sulla sedia a rotelle, ha difficoltà a parlare, ma è una persona intelligentissima e allora quando sono entrato in questa casa ho sentito come un manto che mi ha avvolto, per una frazione di tempo mi ha avvolto di gioia, per un attimo ho visto lui con gli occhi di lei. Ho capito che gli uomini non sanno cos’è l’amore.
                Chi lo sa?
                Solo le donne lo sanno.

                Anche se durante la serata Alfie mi dice tante altre cose, sono distratto e mi soffermo sulla sua risposta. Solo le donne lo sanno. La frase continua a tornarmi in mente, anche quando sono in macchina verso casa. Mi fa pensare alle vedove come superstiti di una guerra, come l’altra metà dell’esercito. Le immagino avanzare imperterrite su una collina, con le ultime forze che sono pur sempre forze. Arrivano in cima, si fermano e il vento gli parla di cose che noi non riusciamo e sentire.


Per chi fosse interessato, questo è il link al sito "l'attimofelice":
http://www.attimofelice.it/