A coloro tuttavia che sono fuori, tutto
succede per metafore, perché vedano con
occhi vedenti eppure non sappiano, e
odano con orecchie udenti eppure non capiscano.
Come furono aperte le pesanti porte metalliche disposte di fronte al trono sull’altra estremità della sala, e come da quelle gigantesche fauci spalancate gli fluì incontro la folla, trattenuta a stento dai legionari che avevano unito le mani a catena e opponevano le spalle a quei forsennati, capì che l’uomo sospinto verso di lui come uno scudo dalla plebaglia altri non era che un dio; tuttavia non osò nemmeno sfiorarlo con lo sguardo una seconda volta, per paura. Sperava anche di guadagnare tempo evitando di guardare il dio, per acquistare confidenza con quella terribile situazione. Era consapevole dell’onore che gli era reso, rispetto a tutti gli altri uomini, da quell’apparizione del dio, ma non trascurava la minaccia che doveva essere insita in quell’onore. Fece scorrere quindi lo sguardo sulle armi dei legionari, esaminò, come d’abitudine, i soggoli stretti sotto il mento, lo stato delle armi, l’affidabilità dei movimenti e la saldezza dei muscoli, per poi lanciare un’occhiata di sbieco alla folla che s’irrigidì e fuse in una massa immobile, silenziosa ora nella sala, e alla testa della quale, avidamente stretto da cento mani, stava tranquillo il dio, che tuttavia continuò ad evitare di guardare. Abbassò invece gli occhi su un rotolo aperto sulle sue ginocchia e che conteneva un decreto dell’imperatore. Cominciò a pensare a cosa gli impediva di rendere omaggio al dio davanti a tutto il popolo. Rivide chiaro l’attimo in cui il dio lo aveva guardato. Si ricordò d’aver notato quello sguardo non appena era stata aperta la porta attraverso la quale il dio veniva sospinto, d’aver visto solo quegli occhi e nient’altro che loro. Non erano diversi dagli occhi umani, non più intensi e senza lo splendore che ammirava nelle immagini greche delle divinità. Non c’era in essi il disprezzo che gli dei nutrono per gli uomini quando scendono sulla terra a distruggere intere stirpi, e nemmeno quella tracotanza che vedeva sfavillare negli occhi dei delinquenti quando gli venivano portati innanzi, o nei ribelli contro l’impero o nei folli che morivano ridendo. C’era una sottomissione incondizionata in quegli occhi, tuttavia doveva trattarsi d’una subdola finzione, perché altrimenti sarebbe stato cancellato il confine fra dio e uomo e io dio si sarebbe fatto uomo e l’uomo dio. Non prestò quindi fede all’umiltà del dio, e il suo aspetto umano gli parve un trucco per tentare l’umanità. Gli importava soprattutto sapere come il dio fosse stato colpito dal suo comportamento; perché era ben consapevole di agire al cospetto di dio. Lo disorientò il timore di aver perso l’attimo decisivo quando aveva abbassato gli occhi sul rotolo aperto, poiché il dio poteva avervi ravvisato un moto di disprezzo. Pensò bene dunque di cercare sulle facce dei soldati i segni che potessero confermare un simile sospetto. Alzò lo sguardo, assente in apparenza, pensieroso, senza affrettarsi e senza tradire il suo timore, tanto che guardò i legionari quasi con sorpresa, come se non si stupisse di vederli in quella sala. Tuttavia non riuscì a scoprire nulla d’inquietante, e però neanche nulla che potesse togliergli il sospetto; perché - si disse subito - i legionari sapevano celare i loro pensieri; eppure era anche possibile che fosse loro indifferente il suo modo di comportarsi davanti al dio, dato che non lo avevano riconosciuto. Così s’accinse a fissare una seconda volta la folla, che fremette sotto il suo sguardo. Vide quelli davanti arretrare spaventati, tanto che molta gente rimase schiacciata in mezzo poiché quelli che stavano più in fondo, smaniosi di interpretare il suo sguardo, si spingevano avanti. Le facce nude davanti a lui, animate dall’odio, gli diedero disgusto. Pensò se fosse il caso di ordinare ai legionari di chiudere le porte e di avventarsi poi da ogni dove sulla folla con le armi snudate; ma ebbe paura di farlo di fronte a un dio. La furia della folla però, e la rabbia con cui si stringeva attorno al dio, gli diedero la certezza che la gente avrebbe preteso da lui la morte del dio, tanto che volse istintivamente lo sguardo verso l’incatenato, benché avesse una paura immensa d’incontrarne una seconda volta gli occhi. Quel che vide tuttavia lo indusse a soffermare lo sguardo. Il dio non era grande di statura, e il suo aspetto era quello d’un uomo qualunque. Aveva le mani legate davanti, gonfie e bluastre. Gli abiti gli pendevano laceri e sporchi sul corpo, tanto che in molti punti s’intravvedeva la pelle percorsa da rosse striature. Ritenne quell’aspetto del dio il più crudele fra quanti potevano ingannare gli uomini, solo un odio inimmaginabile poteva averlo spinto a presentarsi in quella volgare mascherata. Ma si spaventò soprattutto quando il dio evitò di guardarlo di nuovo; pur avendo paura di quello sguardo, il pensiero che il dio lo disprezzasse gli era insopportabile. Il dio teneva il capo chino, anche le sue guance erano pallide e cadenti, e una grande tristezza pareva essersi diffusa sul suo volto. Gli occhi erano rivolti in se stessi, come se tutto fosse molto distante da lui: la folla che lo accerchiava, i soldati armati, e colui che gli sedeva innanzi sulla scranno di giudice anche se era l’unico ad aver capito la verità. Desiderò che il tempo tornasse indietro e che il dio lo guardasse come nel momento in cui s’erano aperte le porte, perché allora si sarebbe inginocchiato davanti a lui, gridando e pregando a gran voce, per chiamarlo dio di fronte ai legionari e al popolo tutto. Quando però vide che il dio non si occupava più di lui, serrò convulsamente le mani come per stracciare il rotolo poggiato sulle sue ginocchia. Ora sapeva che il dio era venuto per ucciderlo. Così si accasciò sul trono, il volto coperto di sudore freddo, mentre il rotolo gli scivolava dalle mani verso i piedi del dio. Quando vide la faccia del legato che si chinava su di lui, annoiata e stanca, impartì l’ordine a bassa voce, come se si trattasse di qualcosa d’irrilevante, poi si volse verso il prefetto appena rientrato dalla Galilea, lo chiamò con un cenno accanto a sé, mentre l’ordine era ripetuto dal legato con voce alta e indifferente; quindi, mentre il prefetto stava ancora facendo la sua relazione, scrutò la folla che si disperdeva mormorando attraverso le porte spalancate sullo sfondo; ma non scorse più il dio, la gente lo teneva nascosto come un suo segreto.
Ora le porte erano di nuovo chiuse e la sala davanti a lui deserta. Fece segno perché tutti lo lasciassero. Si appoggiò all’indietro e guardò giù, verso il rotolo che toccava leggermente col piede. Le mani stringevano calme le estremità dei braccioli mentre ascoltava col capo leggermente chino l’allontanarsi degli ufficiali; solo uno schiavo rimase. Poi diede un’occhiata alla sala, diffidente, come per scoprire le tracce del dio. Vide le pareti imponenti, uniformi, prive di bellezza, le bronzee superfici delle porte attraverso le quali la folla aveva portato via il dio, dipinte di strani ornamenti d’un vivido rosso. Dentro di lui c’era una grande calma che non aveva mai conosciuto prima. La paura lo paralizzava. Era ovunque, in lui e nel peso greve delle mura. Si alzò e passò accanto allo schiavo. Lasciò la torre lungo uno stretto corridoio e uscì nella corte. Sulle torrette e sulle alte mura alcuni legionari spiccavano contro il cielo d’un azzurro profondo. La pavimentazione di pietra brillava al sole. La luce lo avvolse e gli parve di muoversi in mezzo al fuoco quando attraversò il cortile. Avanzò verso l’edificio principale che gli si levava innanzi come un dado goffo e abbagliante, ed entrò nell’atrio. Poi salì la scala che era di fronte all’ingresso e conduceva su, in un intrico di piccole stanze dalle pareti forate e dalle finestre molto elevate, strette e munite di sbarre, attraverso le quali fluiva solo debolmente la luce del pomeriggio. Le pareti erano nude, perché soggiornava raramente nella capitale di quell’odiato paese; però il pavimento era coperto di tappeti e cuscini. Nella stanza più grande lo aspettava il legato, già sdraiato. Si sedette accanto all’ufficiale, ma non toccò cibo e bevve solo un po’ di vino. Rispose con calma al legato e lo ascoltò parlare. Dentro di sé era ansioso di portare il discorso sul dio; ma poi esitò a farlo, perché non si fidava del legato, e lo guardava con sospetto. Cominciò a fare certe domande sull’esercito, e l’ufficiale ne fu disorientato; perché inaspettatamente la conversazione aveva assunto una piega concreta. Poté così ricostruire con estrema chiarezza nell’animo suo, come in un nascondiglio, ogni attimo dell’incontro col dio. Non era molto convinto che Erode trattenesse presso di sé il dio, intuendo di essere il solo destinato a sapere la verità. Temeva che il dio tornasse da lui, perché era venuto da lui e da nessun altro, eppure provava un desiderio intenso e strano che quell’attimo si fosse già avverato. L’abisso fra uomo e dio era stato infinito, e ora che il dio aveva varcato quell’abisso e si era fatto uomo, lui doveva necessariamente perire nell’impatto col dio, sfracellarsi contro di lui, come uno scaraventato contro uno scoglio dall’onda.
Quando venne dunque il messo ad annunciargli che il dio, mandato da Erode, era giunto di nuovo davanti alla fortezza, incatenato, accompagnato dal chiasso della folla, ordinò che il dio fosse trasferito all’interno della fortezza, per dividerlo dalla folla, e quindi attese per tutto il tempo necessario ai legionari per condurre il dio nell’atrio dell’edificio principale. Poi si alzò e passò accanto al busto dell’imperatore, vicino alla porta, come d’abitudine soffermando lo sguardo sul marmo che si levava muto dinnanzi a lui, testa estranea e incoronata che si perdeva nell’oscurità. Percorse il lungo corridoio che conduceva alla scala tra due ali di legionari. Le figure risaltavano nell’ombra, nette al fuoco delle fiaccole che lì erano già accese, così che una luce tremula andava a posarsi sugli uomini, infrangendosi in sempre nuove ondate gialle e rosse sugli scudi rivestiti di metallo. Avanzò verso l’uscita che gli si offriva all’occhio come un rettangolo chiaro, da dove avrebbe potuto guardare giù nell’atrio, e di nuovo, nella memoria, rivide lo sguardo del dio. Parve esitare per un attimo; poi però superò risoluto quei pochi passi scostando violentemente le lance dei legionari, e uscì nello spazio luminoso dell’atrio. Guardò in basso, con un rapido moto del capo. Vide con orrore spegnersi negli occhi dei legionari lampi di scherno. Il dio stava immobile fra di loro. Le sue mani erano ancora legate, ma dalle spalle gli pendeva ora un mantello bianco, sudicio di feci umane. Vide l’irrisione del dio, e biasimò se stesso per averlo mandato da Erode. Ed ebbe così conferma che tutto quello che aveva intrapreso per la sua salvezza si volgeva alla sua perdizione, e percorse a ritroso il tragitto fra i legionari, senza sul momento occuparsi oltre del dio.
Aveva ordinato che la fustigazione del dio avvenisse durante in terzo turno della guardia di notte, e si recò in anticipo sul luogo designato, fra l’edificio principale e la torre più vicina. Era stata una giornata calda, sotto un sole rotolato per il cielo senza nuvole e sul cortile sotteso; ora su tutto posava però la notte, ancora senza luna, forata solo dal fuoco pungente delle stelle, e il mondo pareva ridotto alle superfici spente di quelle mura e di quelle torri conficcate nel cielo come pali, uno spazio di profondità smisurata eppure misurabile con un fermo e preciso numero di passi. Raggiunse il palo che aveva destinato al dio e si levava ritto nella notte dal terreno, appena rischiarato dalla fiaccola sorretta da uno schiavo. Quando strinse il legno fra le mani, avvertì chiodi e schegge che gli scalfirono la pelle fino a farlo sanguinare. Poi si diresse al muro dell’edificio principale dove, accanto a una piccola porta secondaria, c’era un sedile e, appena seduto, intimò allo schiavo di spegnere la fiaccola, poiché gli pareva già d’udire i passi dei legionari; però passò ancora qualche tempo prima che le voci risuonassero fino a lì. Sul muro del castello che gli stava davanti di sbieco divenne visibile un fioco riverbero di fiaccole lontane, e gli si accentuò dinnanzi agli occhi spalancati, finché le mura furono vivamente illuminate e si delinearono nettamente gli enormi massi squadrati. Il palo risaltava nitidissimo sul muro della fortezza, l’ombra correva diritta come una freccia sul terreno per poi spezzarsi repentinamente contro il muro e spingersi in alto lungo la parete nell’infinito della notte, e intanto oscillava anche, avanti e indietro all’avvicinarsi delle fiaccole come la sfera impazzita d’un mostruoso orologio. Sulla superficie rischiarata del terreno, una massa scura avanzò verso il palo e dilagò per ogni dove, s’addensò nello spazio e infine, fitta mescolanza di teste informi, pennacchi d’elmo vivacemente vibranti e mani serrate, apparvero ai suoi occhi i legionari: un assembramento confuso d’armi e corpi, e fra di loro alcuni reggevano alte nella notte le fiaccole; risuonavano anche grida e risate perché nessuno sapeva della presenza di colui che stava immobile sul sedile senza quasi avvertire il fiato pesante dello schiavo alle sue spalle. In mezzo ai legionari, invisibile a lui, doveva però incedere il dio, perché in quel punto tutto s’addensava in un vortice; il suo occhio attento vide calare lì con violenza le impugnature delle spade e i pugni, e il corteo ogni tanto bloccarsi perché tutti si pigiavano e colpivano verso l’interno, quindi indietreggiavano fra risate stridule; poi però la folla riprese ad avvicinarsi rapida al palo, lo raggiunse, lo circondò: ma erano troppo numerosi per riuscire a scorgere il dio. Un legionario s’arrampicò sul palo e fissò fiaccole in cerchio attorno alla cima, poi gettò giù la corda e saltò in mezzo alla folla che subito, con un forte grido, si fece sotto, attorno al palo, ammassandosi terribile, illuminata dalle fiaccole che la sovrastavano in modo così vivido e fantastico che le ombre si protesero da ogni parte del mucchio umano, come i petali d’uno strano e mostruoso fiore improvvisamente dischiuso. Dopo però la folla si disperse e di frantumò in singoli individui che uscirono rapidi dalla luce della corona di fuoco, per distendersi al buio, alcuni così vicini che i suoi piedi quasi li toccavano. Egli tuttavia rimase seduto immobile e senza avvedersene, perché tremendo si mostrava ora il dio ai suoi occhi. Era nudo e le mani semisollevate erano avvolte dalla fune che pendeva dal palo, tesa di sbieco dal loro stesso peso. Il dio era solo, accanto al palo, leggermente discosto, sotto il cielo d’un buio profondo eppure infuocato, perfettamente visibile alla luce che lo avvolgeva come una ruota, avvinto in quel cerchio, immagine del potere di colui che, immobile nell’oscurità della porta laterale, stava seduto di fronte al dio. L’ombra del dio si protese tuttavia dal cerchio di luce delle fiaccole fino in mezzo al suo cuore, e tutto quello che a questo punto accadde si svolse fra lui e il dio; perché tutte le cose, i legionari e le fiaccole accese, il palo levato nel cielo, i severi massi squadrati delle mura, la dura superficie del terreno, il respiro lieve dello schiavo e le masse infuocate delle costellazioni erano lì soltanto perché lì c’erano il dio e lui e nient’altro, ed erano lì perché fra il dio e l’uomo non esiste altra intesa che la morte, e altra pietà che la maledizione, altro amore che l’odio. E appena ebbe pensato questo, nella notte che li avvolgeva, alcuni legionari, pochi, si alzarono e avanzarono da ogni parte, a busto nudo, verso il dio: gli uni vivamente illuminati, gli altri visibili solo come silhouette. Gli scudisci si mossero nelle loro mani come serpi, avvolsero leggeri le braccia poderose, scivolarono poi a brevi sussulti sul terreno, come animali crudeli dalle informi teste di piombo. Gli uomini girarono intorno al dio come in una danza, toccando come per gioco il suo corpo con le fruste sottili, per poi colpirlo improvvisamente con rabbia furiosa, e le teste di piombo si conficcavano a fondo nel corpo del dio, facendo sprizzare il sangue dalla carne, ed egli, tranquillamente seduto, fu invaso da un tormento infinito poiché s’era aspettato, dentro di sé, che le fruste slittassero sul dio come sul marmo. Ora invece vide il dio afflosciarsi colpito dalle tremende scudisciate dei legionari, i piedi strascicanti sul terreno perché le mani erano trattenute alte dalla fune e il corpo scaraventato attorno, in cerchio, dalla violenza delle frustate, centrato sempre di nuovo dai colpi sibilanti dei legionari che danzavano seminudi attorno al dio, per avventarsi su di lui da ogni lato, sommersi dalla luce oscillante delle fiaccole che proiettavano spettrali le ombre sul pavimento di pietra, lucido come uno specchio, come un sottile strato di ghiaccio teso su un mare senza fondo. Poi però, quando il corpo penzolò senza vita, si scostarono dal dio con facce impietrite; perché stanchi erano gli scudisci nelle loro mani, e lentamente gli uomini scomparvero nella notte, e lui rimase solo di fronte al dio, mentre si disperdeva disordinata l’eco dei passi dei legionari. Le fiaccole ardevano più quiete ora; ma erano prossime a spegnersi e la pece gocciolava sul corpo sanguinante, attorcigliato attorno al legno del palo. Allora si levò dal sedile e si avvicinò lentamente al dio. Gli si avvicinò tanto da toccarlo; e vide anche il corpo nudo del dio con la massima chiarezza. Non era bello, quel corpo; perché la pelle era spenta e lacera; si scorgevano anche ferite profonde, alcune in suppurazione, e tutto era coperto di sangue. Non vide però il volto del dio, nascosto dalle braccia. Ma quando vide quel corpo, stravolto e brutto come ogni corpo umano dopo la tortura, e quando tuttavia riconobbe in ogni ferita e in ogni escoriazione della carne il dio, s’avviò gemendo nella notte, mentre dietro di lui le fiaccole si spegnevano sul dio.
Rannicchiato come un animale spaventato, giacque da qualche parte senza sonno, fra le pareti nude delle sue stanze su cui si rispecchiava la fiamma del lume a olio. Viveva immerso nell’orrore del suo animo, solo fra gli uomini e impenetrabile per coloro che gli passavano davanti agli occhi senza smuoverlo, come uno che nelle notti d’inverno veda gente incedere spettrale alla luce della luna. Le sue mani scorrevano sulle trame dei tappeti, s’artigliavano ai cuscini o afferravano tremanti il calice con il vino. Succedeva anche che il suo sguardo scivolasse, sbieco e strano, verso il volto dell’imperatore, bianco nel buio, con le labbra atteggiate al sorriso, irreali, come morti che sorridano fra le tombe, e incerto nella penombra. Poi guardò muto lo schiavo, che si sottrasse a quello sguardo in cui fremeva spettrale un’insolita invidia. All’alba tuttavia, al primo raggio del sole, fece venire i suonatori di flauto e la melodia entrò monotona nelle sue orecchie; ma nulla poteva scuoterlo, perché la visione del dio non aveva abbandonato li suo spirito.
Tentò questo punto di scaricare la sua responsabilità sulla folla, visto che non era riuscito a costringere il dio ad agire. Designò il luogo per il suo progetto, la scalinata che conduceva al grande portale dell’edificio principale, e il momento, il mattino, seguente al giorno in cui aveva per la prima volta incontrato il dio, e tutto si svolse poi in pochi giorni. La scalinata e il portale principale erano all’ombra che si estendeva come un nastro sottile lungo l’edificio principale su una piccola parte del piazzale e della folla. La gente, che durante la notte aveva cantato inni di scherno al dio, era apparsa già presto davanti alle porte della fortezza e s’era riversata selvaggiamente gridando all’interno del cortile di cui riempiva ora le vaste superfici, incurante d’essere alla mercé dei legionari che circondavano il popolo con le armi snudate. Perciò, quando ebbe raggiunto dalle sue stanze l’atrio, vide attraverso la porta spalancata il dio e Barabba già davanti alla folla, un po’ soprelevati, come aveva ordinato; uscì tranquillo dalla penombra della sala, e apparve d’improvviso, così imponente nel suo mantello bianco, fra il dio e il malvivente, che la plebe impietrì sotto il suo sguardo. Guardò con indifferenza la gente accalcata all’infinito davanti a lui, con teste in cui gli occhi rossi erano come chiodi arrugginiti, e le nere lingue posavano pesanti e informi fra denti gialli. Pareva che la folla avesse un volto solo, ed era il volto di tutti gli uomini contemporaneamente, una faccia mostruosa, minacciosa, da cui fluiva il silenzio terribile che s’era posato su tutte le cose, una faccia ora al cospetto di dio e del malvivente, della verità e della violenza, reclamante, con un unico grido acuto, la morte del dio. E siccome il dio tollerava che tutto questo avvenisse, ordinò a uno schiavo di portare una ciotola d’acqua in cui si lavò le mani in segno d’innocenza, senza badare oltre alla folla infuriata: quando però si voltò e vide il viso muto del dio, seppe che la folla non poteva togliergli il suo peso, poiché egli soltanto conosceva la verità. Fu costretto così a commettere sul dio una crudeltà dopo l’altra, perché sapeva la verità senza capirla, e nascose il viso fra le mani ancora gocciolanti dell’acqua della ciotola.
Da quel momento gli parve di muoversi come un morto fra i morti. Verificò i preparativi della crocefissione e guardò i legionari che irridevano il dio. Stette dinnanzi al dio con occhi tranquilli, fissi con indifferenza su di lui, e consentì anche che gli fosse messa in capo una corona di spine. Poi si fece mostrare la croce e ordinò che si rizzasse davanti a lui quel legno grezzo, quindi passò con cura le mani sulla corteccia. Quand’ebbe scelto i legionari, seguì il corteo con lo sguardo finché vide sparire nella porta della fortezza la gente che trascinava con sé il dio, schiacciato sotto l’enorme croce, barcollante in mezzo alla truppa. Si voltò senza far caso al figlio d’uno schiavo che correva piangendo sommessamente per il cortile, in direzione del punto in cui il dio era scomparso nell’arco della porta. Tornò nelle sue stanze e si fece preparare un pasto. Si distese immobile accanto al tavolo e ascoltò con distacco il motivo suonato da musicanti della Lidia che soffiavano a gote gonfie, mentre al di là delle spesse mura che racchiudevano le sue stanze si fece notte. Il sole si oscurò. Il cielo divenne pietra, e la gente nella sala si spaventò. I musicanti staccarono i flauti dalle labbra pallide e fissarono con grandi occhi tondi le finestre munite di sbarre. In mezzo al cielo il sole morto senza luce stava immobile su una superficie spenta, come una palla gigantesca coperta di buchi profondi. Seguì anche un terremoto che gettò tutto sottosopra, e la gente si premette urlando sulla terra. Egli sapeva che in quel momento il dio era sceso dalla croce compiendo miracoli terribili, per portare a termine finalmente la sua vendetta. Si alzò e uscì. Fece venire il suo cavallo e s’avviò galoppando con poco seguito. I cavalli erano ombrosi, come in preda a una grande paura. Le strade della città erano vuote, calate in una terra devastata, su cui gravava un cielo senza più giorno né notte. Le facce degli accompagnatori erano pallide e gli elmi come gusci di lumache su teste calve in cui erano infissi occhi senza luce. Si spaventò quando scorse le sue mani; perché erano come ragni sconosciuti, stretti attorno alle briglie del cavallo. Cavalcarono fuori dalla città verso la collina delle croci. Passarono accanto a gente rannicchiata lungo la strada, con le ginocchia raggruppate, che pronunciava a voce alta e rapida parole senza senso. Alcuni si gettarono davanti ai cavalli, ma senza gridare, e giacquero poi calpestati dagli zoccoli. Le palme erano spezzate a metà e laceri gli ulivi. Dalle tombe nelle rupi, spalancate, pendevano cadaveri e mani ossute si levavano come bandiere nell’aria lattiginosa. Schiere di lebbrosi avanzavano barcollando nei mantelli svolazzanti come neri uccelli, e le loro voci passavano come fischi striduli. Il sentiero saliva alla rupe. Era coperto dai cadaveri sfracellati di coloro che si erano gettati dalle rocce. I cavalli si fecero più inquieti man mano che si avvicinavano al posto dove erano state erette le croci, al centro quella del dio, forse svettante, vuota e nuda verso il cielo, alla quale stava forse appoggiato il dio in persona, nudo e bello, ridendo a gran voce, pronto a dilaniare colui che si stava avvicinando a cavallo. Il sole era ancora spento e immobile allo zenit, come se il tempo non esistesse più. Anche l’oscurità si era accentuata, ed egli andò quasi a sbattere contro la croce dritta davanti a lui nella notte, e solo a fatica constatò che quella era la croce del dio. Stava già per allontanarsi, per cercare ancora; come però si levò a oriente, gigantesca, una verde cometa, vide che quella croce non era vuota come aveva creduto. Furono i piedi che scorse per primi. Erano forati da un chiodo, e mentre lo sguardo scivolava verso l’alto, il corpo s’inclinò pesante, a braccia spalancate, furiosamente protese nel cielo, e proprio sopra la sua faccia pendeva il volto morto del dio.
Quando però, tre giorni dopo, venne di mattino presto il messo a comunicargli che il dio, nella notte, aveva lasciato la sua tomba, trovata vuota, vi si recò subito a cavallo e guardò a lungo nella cavità. Era vuota, e la pesante pietra che l’aveva coperta giaceva spezzata a terra. Si girò lentamente. Ma alle sue spalle c’era uno schiavo, e quello vide così la faccia di Pilato: immensa dinnanzi a lui come un paesaggio di morte, pallida alla prima luce del mattino, e gli occhi, spalancati, erano freddi.