mercoledì 23 marzo 2011

Strologo

Stavolta vi propongo una canzone.
E' un coccio prezioso di bellezza.
Come tutte le canzoni degne di questo nome, è difficile separare il testo dalla musica, perchè si rischia di perdere la poesia che è data dalla loro unione. Come se, rompendola, si perdessero delle minuscole schegge, e fosse troppo difficile, poi, ricomporle.
Perciò cercherò di fare piano.
S'intitola Strologo,tratta dall'album Ladro di rose. 
Il gruppo è la Piccola Bottega Baltazar.
Sono musicisti di Padova, che sanno trasformare le parole in emozione.
Fanno uso anche del dialetto veneto, e questo fa sì che i loro versi siano incisi nella mia pelle a fondo, in modo quasi primordiale.
Capisco che qualche termine potrebbe impedirvi la comprensione chiara del testo, così cercherò di creare un minuscolo e assai essenziale glossario, in fondo.
Ma, vi prego, cercate solo di lasciare che le parole vi scompiglino i capelli.

Permettetevi di emozionarvi.


Fredo seco de zenaro: sachi pieni nel granaro,
ma non dirlo mai ai parenti, né ai ministri competenti.
Vecchio amico mio, gennaio, vecchia ombra nel pollaio.
Quando riva Sant’Agnese el fredo va su le siese.
Se le siese no le xe fate, el va su par le culate.
Bisognava pensarci prima, ah! saperci pensar prima!
Febraio febraieto, scortega el musso e’l cavareto.
Xe corto, febraro: meso dolce, meso amaro.
Come il liquore dentro al bicchiere,
son mezze vuote certe sere.
Marso mato e baerìn, piova, vento e gran casin.
Tanti i dixe che sia nati proprio a marso, i sindacati.
Andavi a lavorare, in cucina un pacco di roba da stirare,
niente arti, dottrine né scienza, la tua arma si chiamava pazienza.
E nelle tue mani io sono cascato, come un pero, cascato.
Riva aprìe coi so fiori, coi poeti e i cantautori.
Tuti scrive e tuti i sona: semo un popolo de mona.
Maggio umido impoverìsse, maggio seco no arichìsse.
Maggio mese maledetto, despoiarse pian pianeto,
che a spogliarmi per davvero tu c’hai messo un anno intero.
Tu c’hai messo un anno intero, ogni giorno un giorno in meno.
Giugno ga tesori in pugno: raccolti e promossion, matrimoni e delusion.
Raccolto nella tua mano, scivolavo via pian piano.
Era un giorno chiaro d’estate.
Tua madre, coi fiori di zucca, cuoceva frittate.
E sorridevo sicuro di me nel vederti tracciare
un segno a matita sul calendario.
Taca in luglio el spolvaròn, va in vacanza na nassiòn.
Passa el mese da cristiani, stando a casa soeo che i cani.
Brilla agosto in un istante: sguardo di bella passante.
Aria fresca settembrina dissolve i sogni alla mattina.
Chioggia, Grado, Pellestrina, Caorle, Lido, Rosolina.
Sopra il muro un’ombra bruna, io vegliavo con la luna.
Con otobre a San Simon, de ogni gaeo se fa un capon,
e col resto dele bale i fa su un telegiornale.
Io vorrei poter mentire, ma purtroppo non so dire.
E arrivava il mese dei morti.
Riponevi in armadio nervosa dei calzoni corti.
A novembre ti sei distratta. Musi lunghi e giorni brevi,
giorni neri di caldarrosta, e qualche ultimo giro di giostra.
Dicembre dicembrin, no se semina un graneìn.
Massa fogo de stua xe cativo, de radicio no essar privo.
Per regalo di Natale tu mi hai chiesto di restare.
Mi sembrava così strano, mentre singhiozzavi piano.
Dura un ano tante robe, fora e vece dentro e nove.
Ci son voluti altri sei giorni, e sarà difficile che io ritorni.
Ora è tardi e tu non dormi, ma sarà difficile che io ritorni.
Sarà molto difficile che io ritorni.
E, ora che avete letto...


Piccolo glossario:
"zenaro" = gennaio
"granaro" = magazzino di cereali
"siesa" = siepe
"culate" = natiche
"scortega" = scortica, squoia
"spolvaròn" = polverone
"soeo" = solo
"gaeo" = gallo
"stua" = stufa

lunedì 21 marzo 2011

Lettera d'amore

Ok, alla fine mi sono decisa.
Alcuni di voi mi hanno chiesto perché non pubblico qualcosa di mio.
Qualcosa che parli la mia stessa lingua.
Qualcosa che abbia il mio odore, e la mia forma.
E ora mi sono decisa.
Non saranno molti pezzi, davvero.
Uno ogni tanto.
Un intervallo di me, fasciato dal calore dei Grandi, cui umilmente mi appoggio.

Questo è un pezzo che ho presentato un annetto fa ad un concorso indetto dalla casa editrice Noubs.
Sono stata segnalata.
Bisognava scrivere una lettera d'amore, una qualsiasi lettera d'amore.
Lo appoggio qui sotto.
Abbiatene cura.


foto di Chiara Pasin

Nell’attimo in cui la mia penna si alza per riprendere fiato dopo l’apnea del foglio, ad intervalli regolari, pulsa il mio cuore. Martella ricordandosi di quando non era stanco.
E gli pare sia passato così tanto tempo…
Scrivo seduto sul letto, chéri. Il letto che mi vedrà andare via, invidiando la nostra sagoma intersecata ritagliata nel pavimento. Allontanarsi. Quando, chéri?
Scrivo seduto sul letto mentre una falena si schianta testarda sul vetro opaco e polveroso dell’abat-jour. Fa rumore. Disturba il ritmo regolare del mio respiro e dello scorrere irrefrenabile dell’inchiostro blu. Non so perché blu. Forse perché a te piace solo il nero. Te l’ho visto tante volte addosso, chéri. E allora pensavo che ti saresti riposata gli occhi, con un pezzetto di oceano. Perché questo è proprio quel blu dell’oceano quando gonfia le onde da lontano, senza il frizzare di creste tutto intorno. Fatto apposta per metterti su una barca e partire, chéri. Lo avremmo potuto fare, non credi? Senza disturbare nessuno. Con gli occhi abbottonati, mentre il blu vortica fischiando. Ma piano. Sotto di noi.
Scrivo seduto sul letto, e ogni tanto mi fermo, come se cadessi per colpa di un peso troppo forte, che mi fa cedere le ginocchia che cozzano sul pavimento.
E ogni volta mi devo rialzare.
E ogni volta so che dovrò ancora crollare. Troppe volte, chéri. Mi è successo ormai troppe volte. Sempre a restare vuoto, dentro, come se la mia esistenza fosse ridotta all’attesa del prossimo tonfo.
Ma ora verrai tu, chéri. Me l’hai promesso.
E’ solo grazie a te se potrò liberarmi da questa routine infernale, da questa distesa di ghiaccio duro. Mi porterai dentro di te. Dove regna incontrastato il calore della terra, dove mi ci abbandonerò come fossi un bambino. Raggomitolato.

E tu sarai pronta ad accogliermi, non è vero, chéri? Ma forse tu lo sei sempre stata, per me. Sono io che l’ho capito tardi. Ma non è mai troppo tardi per farsi succhiare via le rughe dal viso. Ti vedrò e il mio volto sarà liscio. Come non lo è mai stato, con nessuna donna. Senza più contrazioni o pensieri a turbarlo. Come quello delle statue greche.

Mi chiedo sempre quando arriverai. Lo sai, chéri. Ormai non faccio altro che pensare a te, ogni giorno che passa senza vederti. Mi sento come una lettera che dev’essere portata a destinazione, e non potrei aver scelto meta migliore. Solo che sono io, che attendo. Con un’ansia e una bramosia che fatico a contenere, che devo reprimere per non lasciare che mi guidi, sbandato, a cercarti. Ho promesso che ti avrei aspettata. E a discapito della sorpresa, so già cosa accadrà.
Attraverserai la finestra, e io vedrò solo la tua ombra, a toccarmi. E da lì inizierò a sentire il tuo profumo. Dall’attimo esatto in cui la maniglia consumata di ottone chinerà il capo indulgente.
E capirò che quello sarà il momento. Mi si insinuerà dentro un qualcosa di tremendamente bello, che mi salirà dai piedi fino allo stomaco, per torcerlo e per gettarmi sotto la pelle manciate di farfalle impazzite, che gli altri si ostinano a chiamare adrenalina. Mi capita ogni volta che ti penso, chéri. Poi entrerai. Solo allora. Sarai bellissima. Vedrò prima la tua mano inguantata, il piede incorniciato da scarpette scure, poi chiuderò gli occhi. Per poter vedere il tuo volto solo quando mi sarà vicino, in quel tassello di tempo che non si può contare, prima di poterti toccare.
Finalmente. Dopo tutto questo tempo. Sarò tuo, chéri. Sarò tuo come non lo è mai stato nessuno. Con una passione e una rabbia dolcissime. Con una voglia e una tenerezza mai viste. Con un grido e una lacrima. E tu non parlerai. Non lo fai mai. Resterai sul mio letto fino a quando il sole rispettoso ci chiuderà sopra la tenda che è la notte. Premuroso.
E allora, forse, piangerò, chéri.
E tu berrai dalle mie lacrime l’amaro che fino ad allora mi sarò tenuto stretto dentro. Mi strapperai di dosso le catene che mi impedivano il passo, e mi terrai per mano. Guardandomi con due occhi pieni fino all’orlo.
Piangerò per il mio abbandono a te che sarà totale e definitivo. Per la consapevolezza di essere giunto al punto atteso da così tanto, chéri.

Mia adorata Morte.
Sono qui che ti aspetto.


Tuo, per sempre.

lunedì 14 marzo 2011

Il collezionista di tramonti

Lascio parlare chi lo sa fare meglio di me.
Vi chiedo solo di mettere il vostro animo a completa disposizione delle parole che lo toccheranno.
Cercate che sia il respiro, per una volta, a scandire il vostro ritmo.
E se questo implica il silenzio, createlo.
Vi lascio un augurio, tra queste parole.
Che ciascuno di voi possa avere una collezione di tramonti, alla fine, da consegnare.



E qui trovate il testo integrale. L'autore è Tomas Saulius Kondrotas. Il racconto s'intitola Il collezionista.

A furia di meravigliarmi del mondo e della gente, a poco a poco mi sono convinto che la nostra compassione per gli altri si fonda su calcoli egoistici. Probabilmente, a parte qualche eccezione, è sempre così. Immaginiamoci questa situazione. Voi vi trovate ai funerali di una persona. L’autunno, gli aster in fiore, la bara, la fossa per la tomba, la gente infreddolita negli abiti neri e un’atmosfera spiacevole. Voi siete in piedi alle spalle degli altri, un po' in disparte, poiché non appartenete alla cerchia dei parenti prossimi del defunto e siete venuti solamente per cortesia, dal momento che una volta l’avevate un po' conosciuto. Dunque avete un’ottima occasione per osservare tutto e valutarlo con imparzialità. Ecco che la bara viene calata nella buca, si suona una triste musica di commiato. E cos’altro sentite voi, a parte quella musica? Il lamento della vedova:
- Ah, come farò io a vivere senza di lui? Mio unico bene, mio carissimo! -
Eccetera, eccetera. Sentite? IO, MIO... Nessuno, quasi nessuno piange per il fatto che un uomo é morto e che PER LUI é male esser morto. No. Solo ‘IO senza di lui non posso!’, ‘NOI non sopravvivremo a tanta disgrazia!’ e simili. Non vi sembrerà strano dopo di ciò guardare uno che piange accanto al feretro, non sorprenderete nelle sue lacrime solo apprensione per se stesso? Si, solamente questo.
Se rovisterete nei vostri sentimenti, forse ne converrete: in fondo siamo tutti molto simili. Perciò vi sarà facile capire, perché non amo gli ammalati. Trovo difficile persino far visita alle persone che mi sono più care quando stanno male, perché mi opprime l’idea di doverle aiutare, forse addirittura curarle e, quel che é peggio, che solo io possa farlo.
All’improvviso, mentre correva la sua sessantesima primavera, s’ammalò una persona a me cara, vissuta sola soletta, senza famiglia né parenti che potessero essergli d’aiuto e conforto. Per mia fortuna (o sfortuna?) molte cose ci legavano, cosicché toccò a me imboccarlo, lavarlo e vegliarlo. Poiché era un uomo intelligente e conosceva il mio punto di vista intorno ai malati, non richiedeva da me che sedessi presso il suo letto a lisciarlo e intrattenerlo con storielle allegre anche in quelle ore in cui non era davvero necessario. Però ero pur sempre costretto a gironzolare nei dintorni in modo che all’occorrenza potesse chiamarmi. Dovendo spendere così il mio tempo, ogni tanto, volente o nolente, spinto dalla noia, leggevo da cima a fondo tutte le riviste, anche perché negli ospedali non si trovano altro che testi tecnici e quelli io proprio non li sopporto e per dirla tutta sono piuttosto duri da digerire.
Una mattina, dopo aver dato la prima colazione al mio amico, sedevo e sfogliavo le pagine degli annunci di un quotidiano. Tra le svariate notiziole che m’informavano sulla vendita d’un pentolone nero, del portapacchi d’un motociclo, d’una camera da letto o del fatto che si comprerebbe volentieri un box metallico e un passeggino per bambini, ne capitò una sulla quale dapprima lasciai scivolare gli occhi ma poi vi ritornai sopra e lessi con maggiore attenzione, perché mi pareva contenere un errore di stampa. L’annuncio suonava così:

Vendesi collezione. Tramonti. Rivolgersi a... fino alle 19

Dapprincipio pensai che la parola ‘Tramonti’ indicasse l’indirizzo al quale gli acquirenti dovevano rivolgersi. Così come c’è viale dei Tramonti o traversa del Tramonto. Ma in basso, nella seconda riga, c’era scritta un’altra via. Non mi raccapezzavo. Che poteva significare tutto ciò, cos’era mai quella collezione e che c’entravano i tramonti? Lì per lì non ci rimuginai troppo. Strappai l’annuncio e l’infilai nel taschino. Così, come spesso senza riflettere si mettono in tasca pietruzze di forma strana pur sapendo che non ci serviranno mai. Passarono alcuni mesi. Il mio amico e io vivevamo come al solito. Era autunno inoltrato quando una volta, non mi ricordo per quale faccenda, capitai in quel quartiere della città dove si trovava la strada indicata nell’annuncio del giornale. Non avevo bisogno di nessuna collezione, ma decisi di passare per quella strada e per curiosità dare un’occhiata alla casa dove viveva l’inserzionista.
Trovai subito la casa. Era una costruzione in legno con profonde fondamenta, più o meno ad altezza d’uomo, murata con grosse pietre. Si vedeva che era un vecchio edificio perché nelle crepe della malta crescevano già erbette e muschi. Nella via c’era un camion in sosta e l’intero tratto tra l’automezzo e la casa era ricoperto con fogli di giornali e vecchie riviste sparpagliate a terra. Quattro uomini con tute grigio scuro si sforzavano di far passare dalla porta un grosso armadio. Li guidava un tizio alto e biondo, più o meno sulla trentina. A furia di gesticolare con le mani, gli svolazzavano i baveri della giacchetta abbottonata. L’uomo sorrideva e scherzava coi facchini.
Rimasi lì per qualche minuto osservando il gruppo finché il tipo con la giacca mi vide. Si fece vicino e chiese:
Lei cerca Grikonis?
Io restai interdetto. Non sapevo cosa rispondere perché in verità non conoscevo nessun Grikonis e nemmeno si poteva dire che cercassi davvero qualcuno. L’uomo penetrante e indagatore notò la mia confusione. Macchinalmente infilai la mano nel taschino, estrassi il pezzetto di giornale e glielo mostrai. Gli dette un rapido sguardo e di nuovo mi fissò.
- Aah. Ciò significa che lei é di quelli... -
Io non avevo la più pallida idea di chi fossero ‘quelli’.
- Per parlare francamente, no - dissi.
Ma lui non prestò attenzione alle mie parole e a quanto pare anche dopo mi considerò come uno di ‘quelli’:
- E’ morto una settimana fa. Probabilmente sentiva che sarebbe morto presto e si é affrettato a vendere. Io sono suo figlio - mi tese la mano e io la strinsi. - Ho deciso di vendere la casa e tutti i mobili. Vede, - e mosse la mano verso I facchini - portiamo tutto fuori.
Mi prese per il braccio.
- Entriamo. Le farò vedere dov’è sistemata. Gli armadi erano stracolmi e allora abbiamo trasportato tutto in una stanza. Ho in mente di gettarli, perciò abbiamo caricato come capitava. Lui aveva sistemato tutto con molto ordine. Non pensavo che a qualcuno sarebbero servite queste cose. Se le può prendere. Non chiedo nessun compenso. Me ne sarei disfatto comunque. Solo dovrebbe portar via tutto al più presto. Oggi stesso. I suoi pensieri saltellavano, parlava veloce, senza permettere spiegazioni. Di colpo mi strinse il braccio:
- Sa una cosa? Ci ho pensato. Noi mettiamo tutto in questa macchina, lo trasportiamo a casa sua e scarichiamo. Non abbia paura, ci starà. Nella macchina c’è ancora molto posto. Questo é l’ultimo viaggio. Così faremo più in fretta. - Parlando mi conduceva per le stanze vuote con brandelli di carta giallastra e azzurro cielo attaccati alle pareti. Odoravano di cinnamomo e di ragnatele umide. Sui pavimenti erano ancor chiare le tracce di mobili da poco rimossi. L’uomo aprì una porta su una piccola cameretta con un’ampia finestra:
- Eccoli.
Devo dire che quel che allora vidi mi deluse. Senza, in coscienza, aspettarmi nulla, eppure nel profondo del cuore speravo di vedere qualcosa d’interessante. Sì, una collezione, fosse pure di etichette, di fiammiferi o di spillini. Ma ciò che era ammonticchiato in quella camera da lontano non ricordava affatto una collezione. C’erano cumuli di scatolette di latta della marmellata, storte e arrugginite, vecchi pacchetti di cartone per surrogato di caffè pieni di macchie, bottigline di vetro nero (su una lessi ‘Inchiostro Pingvin’) e barattoli di vetro ricoperti con carta adesiva scura. Alcuni avevano certe etichette, altri non recavano niente o delle tracce di colla sbruciacchiate a indicare che anche lì c’erano state le etichette.
- Eccoli - ripeté quell’uomo, ritto dietro la mia schiena, guardando la camera oltre le mie spalle.
- Cosa?
- I tramonti. Ehi, ragazzi! - strillò - caricate anche questa roba! - aprì con delicatezza una delle scatolette e quella, rimbalzando sul pavimento, rotolò verso le altre. A giudicare dal suono doveva essere vuota.
Probabilmente il mio viso mostrò delusione, poiché sentii dire:
- Il babbo si lamentava sempre che gli mancavano i contenitori e tutti i vicini allora gli portavano ogni tipo di barattoli che poi gli sono rimasti. I facchini intanto trasportavano le lattine e i barattoli di vetro sul camion e io dovevo starmene lì, in piedi, e ascoltare quello sconosciuto. Quella robaccia occuperà almeno un quarto del mio appartamento. E quanta fatica dovrò ancora fare prima di riportarla tutta fuori di casa; non posso certo permettermi d’ingaggiare dei facchini.
- Mica poco, vero? - disse il biondo con una punta d’orgoglio. - All’inizio collezionava aurore, ma poi, chissà come e perché, s’interessò ai tramonti. Sapete, cominciò ad occuparsi di tutto ciò assai tardi cosicché non poté dedicare molto tempo agli uni e alle altre. L’età non era più quella. Capirete da solo: d’estate il sole sorge molto presto e per una persona anziana non é semplice levarsi all’alba. I tramonti erano più comodi. Comunque per me lei può prendersi tutto. Le aurore sono stipate nello scantinato. Quasi tutte senza etichetta. Ma penso che in un modo o nell’altro occorrerà aiutarla. Per me sarebbe meglio se si prendesse tutto.
Mi guardò negli occhi:
- E allora ?
Avvertivo sul mio volto un certo rossore ma non riuscivo a farci niente.
- No grazie, - dissi - non é il mio campo.
- Ma come...
I facchini avevano finito il lavoro quando arrivammo presso il camion. Mi sedetti vicino al conduttore per indicare la strada. Il biondo salì in cabina. Dopo un’ora rimasi da solo nel mio appartamento, sovrastato da pezzi di metallo, stracci e barattoli di vetro; bestemmiavo sottovoce e non avevo la minima idea di come utilizzare quel tesoro cadutomi, é il caso di dirlo, dal cielo. Afferrai una di quelle scatolette di latta, la rigirai nelle mani e la gettai di nuovo nel mucchio. Sull’etichetta, a lettere rotonde, uguali e quasi infantili, lessi: ‘Zagare, 1946, Primavera ’. Sollevai la scatoletta e l’agitai. A un tratto mi parve che qualcosa risuonasse all’interno, ma dopo averla agitata ancora per un po', non udii più nulla. Una semplice latta vuota. Mi sorpresi nello specchio con quella scatoletta all’orecchio. Avevo l’aria di un imbecille.
Ebbi un sospiro, mi procurai un coltellino, aprii la latta e balzai all’indietro. La stanza fu invasa da una cortina di luce argentea. Le altre cose svanirono. Vidi davanti a me la linea azzurra del cielo e il sole che tramontava. Un luogo straniero, del tutto sconosciuto, illuminato da raggi rossi e color del bronzo. Similmente si riflette la fiamma della stufa sulle stoviglie d’argento. Alcune nuvole di porcellana giallastra, appena visibili all’orizzonte, il disco cremisi del sole nel fondo del cielo. Il cielo, in alto verde com’erba appena spuntata, un po' più in basso color della pera che marcisce, in un gioco di barbagli come i lampi di luce sul bicchiere di cristallo pieno di tè. L’aria pura e tersa, ma avviluppata da una stanchezza appena percettibile. Appena appena.
Ecco che il tramonto c’era davvero. Non durò molto, solo qualche minuto finché il sole scomparve. Aprii la latta e la gettai a terra. Rimasi stordito per un po', come chi riprende a fumare dopo tanto tempo.
Mezz’ora più tardi, svanita la vertigine, passai in rassegna tutte le altre etichette. Su tutte c’era la data, il nome del luogo e la stagione. Nient’altro.
Ne trovai alcune degli anni prima della guerra, tre o quattro degli anni della guerra, ma la maggior parte erano degli ultimi vent’anni. Ricomposi tutto con ordine quanto meglio potei e uscii di casa. Avevo bisogno di camminare e di riflettere con calma.
Riuscii a passare tutte le scatolette nell’arco di un mese, ma non più di dieci al giorno. La testa mi girava, avevo perso la percezione di chi ero e di dove ero. Dieci era il limite che più di una volta non fui capace di superare. Molto più tardi mi imposi una regola: non aprire più di tre scatole nello stesso giorno. Ma ciò avvenne molto tempo dopo. Allora invece io ero come un folle. Come quell’uomo che nel deserto era quasi morto dalla sete e ora beve credendo che l’acqua non finirà mai. Non riuscivo a capire come avessi fatto prima a non notare i tramonti. E ancora: quell’uomo, Grikonis, che aveva messo insieme la collezione era costantemente con me. Io lo conoscevo così come conosco me stesso. Sebbene fosse morto e sepolto, tra noi si stese un resistente filo d’oro. Molto più resistente di qualunque altro che mi legasse a chicchessia. Ricavavo informazioni su di lui da come aveva selezionato i tramonti, con quali colori, linee e stati d’animo. Alcuni tramonti non mi piacevano affatto, altri così così, di altri ancora ero affascinato come da vere opere d’arte. E tutto questo mi faceva conoscere Grikonis. Fino ad allora non avevo mai immaginato che d’un uomo si può dire ciò che é dai tramonti che preferisce. Senza conoscerne i dettagli, potevo sperimentare la solitudine di quell’uomo come fosse la mia propria (io quella sensazione non l’avevo mai provata), riuscivo a esperire i sentimenti e le preoccupazioni dalle quali egli da tempo si era liberato per sempre.
Talvolta guardavo e riguardavo lo stesso tramonto, finché percepivo cosa rodeva i pensieri di Grikonis quando anch’egli lo contemplava. Non c’erano tramonti casuali. Ognuno possedeva un significato, solo che bisognava saperlo cogliere. Col tempo selezionai una ventina di tramonti che guardavo e riguardavo ogni volta scoprendo sempre nuovi stati d’animo e sensazioni. Gli altri li guardavo solo di tanto in tanto, se mi restava qualcosa di oscuro in uno dei venti. Il mondo acquistava per me nuove e mai viste profondità e dimensioni. Un giorno viaggiavo verso quella casa dove tutto aveva avuto inizio colla segreta speranza di riuscire a trovare anche le aurore. Da tempo nessuno aveva più aperto la porta. Io mi stavo già rallegrando del fatto che il luogo fosse disabitato perché così sarei riuscito nel mio intento. Ma la porta si aprì e apparve il volto raggrinzito e ingenuo di una vecchina. Dissi di essere un amico dell’ex proprietario della casa e mi informai su dov’era sepolto. Ma la vecchina l’ignorava. Allora chiesi dove abitava il figlio. Ma non seppe dirmi nemmeno questo. Mentre perdevo la speranza di trovare qualcosa, accennai alle aurore.
- Quali aurore? - si spaventò la vecchietta.
- Sa... nelle latte. Devono essere nello scantinato. -
- Aurore nelle latte? Nello scantinato? Lei é pazzo! -
La vecchina mi sbatté la porta in faccia e sentii che strillava dentro:
Prendersi gioco di una donna anziana! No! Chiamerò la polizia! Non finirà così! Mi hanno avvelenato il gatto e ora si burlano di me! Mi vogliono buttare fuori di casa! La vedremo! Porterò tutto in tribunale!
E così via... Non indugiai oltre. Tentai d’ottenere qualche informazione dal custode del cimitero, ma anche questi non sapeva niente. ‘Ne seppelliamo tanti. Come si fa a ricordarseli tutti?’, e basta.

Col tempo cominciò a non bastarmi più quello che possedevo. Volevo avere qualcosa di mio. Con sempre crescente insistenza ci rimuginavo su, finché, senza neanche accorgermene, presi la decisione. Riempii la valigia di scatolette vuote del tè, presi alcuni giorni di ferie non pagate e viaggiai nei posti dove immaginavo vi fossero i tramonti più belli. Anche se non c’ero mai stato prima d’allora, scelsi la zona dei laghi nel sud della Lituania. Quei posti mi attiravano già da tempo. Per tre giorni fu nuvoloso, ma il terzo già dall’alba si mostrò niente male e così mi preparai per il sud. Devo confessare che avevo molta paura di non riuscire. E infatti le prime prove non furono buone, ma compresi presto dov’era il mio errore. Non occorre semplicemente guardare il sole che cala. Bisogna invece VIVERE quella visione. Concentrare in uno - nel tramonto - tutti i propri sentimenti e pensieri. Qui é nascosto tutto il segreto perché non si può sentire così ogni tramonto. Un’altra difficoltà é che in un giorno si può vedere un solo tramonto. Esso non si ripeterà più una seconda volta.  Perciò qui non può esserci alcun tentativo. O ti riesce oppure no. E basta.
Da quei giorni sono passati quindici anni, e posso dire che la mia speranza é stata soddisfatta. Anno su anno ho accumulato la mia raccolta, ogni giorno libero sono andato in cerca di tramonti. Ho selezionato, lasciando fuori o recuperando una cosa o l’altra, finché la mia collezione personale é diventata anch’essa bella, ordinata e compatta. Si può dire che sono diventato un virtuoso di quest’insolito genere di cose. Appena sbircio un tramonto so subito quanto vale e se si addice o no alla mia collezione.
Ecco, sono già due anni che sono in pensione e allora, lo capite da soli, non é più oltre le montagne il mio tramonto, che vedrei solo una volta senza poterlo inserire nella collezione. Adesso io viaggio di continuo per il paese, con ogni mezzo di trasporto e anche a piedi. In alcuni posti mi conoscono già e i ragazzini si offrono di portarmi le scatolette. Loro non sanno perché sono sempre qui, cosa mi spinge in questi paraggi, ma forse un giorno glielo spiegherò. Forse spiegherò e racconterò tutto ciò che so sui tramonti e sul mondo. È ogni volta più faticoso camminare col carico dei miei tramonti e non c’è paragone con quegli accalappiatopi, detti gli ‘ungari’, che tempi addietro andavano per i villaggi. Ogni giorno é più dura. Non é da escludere che anche a me verrà il desiderio di vendere a qualcuno la mia collezione, sebbene preferirei donarla a una persona adatta. Non meravigliatevi perciò quando vi capiterà di vedere su un giornale questo piccolo annuncio:

Vendesi collezione. Tramonti.

Quello sarò io.

giovedì 3 marzo 2011

Pilato

L'ho letto due anni fa per la prima volta.
S'intitola proprio Pilato, ed è un racconto di Friedrich Durrenmatt.
E' piuttosto lungo, lo so... Io ho impegato tredici minuti, per finirlo.

Mi colpisce.
Mi colpisce la rabbia di Pilato. Mi colpisce che l'imputato non dica mai niente.
Mi colpisce la vendetta del dio. Mi colpisce il puzzo di morte.
Questo racconto è lo specchio dell'umanità, ne fa una valutazione senza sconti, e mostra l'aspetto più lurido e infame.
La folla. La massa. La gente.
Qui sembrano un'unica entità, accomunati solo dalla sete di violenza.
Pilato, che ci mostra i fatti attraverso i suoi occhi, nonostante faccia di tutto per evitarlo, alla fine si amalgama pure lui tra coloro che non hanno capito.
E non riceve neppure la grazia di morire.

Leggete, vi servirà.


A coloro tuttavia che sono fuori, tutto
succede per metafore, perché vedano con
occhi vedenti eppure non sappiano, e
odano con orecchie udenti eppure non capiscano.

Come furono aperte le pesanti porte metalliche disposte di fronte al trono sull’altra estremità della sala, e come da quelle gigantesche fauci spalancate gli fluì incontro la folla, trattenuta a stento dai legionari che avevano unito le mani a catena e opponevano le spalle a quei forsennati, capì che l’uomo sospinto verso di lui come uno scudo dalla plebaglia altri non era che un dio; tuttavia non osò nemmeno sfiorarlo con lo sguardo una seconda volta, per paura. Sperava anche di guadagnare tempo evitando di guardare il dio, per acquistare confidenza con quella terribile situazione. Era consapevole dell’onore che gli era reso, rispetto a tutti gli altri uomini, da quell’apparizione del dio, ma non trascurava la minaccia che doveva essere insita in quell’onore. Fece scorrere quindi lo sguardo sulle armi dei legionari, esaminò, come d’abitudine, i soggoli stretti sotto il mento, lo stato delle armi, l’affidabilità dei movimenti e la saldezza dei muscoli, per poi lanciare un’occhiata di sbieco alla folla che s’irrigidì e fuse in una massa immobile, silenziosa ora nella sala, e alla testa della quale, avidamente stretto da cento mani, stava tranquillo il dio, che tuttavia continuò ad evitare di guardare. Abbassò invece gli occhi su un rotolo aperto sulle sue ginocchia e che conteneva un decreto dell’imperatore. Cominciò a pensare a cosa gli impediva di rendere omaggio al dio davanti a tutto il popolo. Rivide chiaro l’attimo in cui il dio lo aveva guardato. Si ricordò d’aver notato quello sguardo non appena era stata aperta la porta attraverso la quale il dio veniva sospinto, d’aver visto solo quegli occhi e nient’altro che loro. Non erano diversi dagli occhi umani, non più intensi e senza lo splendore che ammirava nelle immagini greche delle divinità. Non c’era in essi il disprezzo che gli dei nutrono per gli uomini quando scendono sulla terra a distruggere intere stirpi, e nemmeno quella tracotanza che vedeva sfavillare negli occhi dei delinquenti quando gli venivano portati innanzi, o nei ribelli contro l’impero o nei folli che morivano ridendo. C’era una sottomissione incondizionata in quegli occhi, tuttavia doveva trattarsi d’una subdola finzione, perché altrimenti sarebbe stato cancellato il confine fra dio e uomo e io dio si sarebbe fatto uomo e l’uomo dio. Non prestò quindi fede all’umiltà del dio, e il suo aspetto umano gli parve un trucco per tentare l’umanità. Gli importava soprattutto sapere come il dio fosse stato colpito dal suo comportamento; perché era ben consapevole di agire al cospetto di dio. Lo disorientò il timore di aver perso l’attimo decisivo quando aveva abbassato gli occhi sul rotolo aperto, poiché il dio poteva avervi ravvisato un moto di disprezzo. Pensò bene dunque di cercare sulle facce dei soldati i segni che potessero confermare un simile sospetto. Alzò lo sguardo, assente in apparenza, pensieroso, senza affrettarsi e senza tradire il suo timore, tanto che guardò i legionari quasi con sorpresa, come se non si stupisse di vederli in quella sala. Tuttavia non riuscì a scoprire nulla d’inquietante, e però neanche nulla che potesse togliergli il sospetto; perché - si disse subito - i legionari sapevano celare i loro pensieri; eppure era anche possibile che fosse loro indifferente il suo modo di comportarsi davanti al dio, dato che non lo avevano riconosciuto. Così s’accinse a fissare una seconda volta la folla, che fremette sotto il suo sguardo. Vide quelli davanti arretrare spaventati, tanto che molta gente rimase schiacciata in mezzo poiché quelli che stavano più in fondo, smaniosi di interpretare il suo sguardo, si spingevano avanti. Le facce nude davanti a lui, animate dall’odio, gli diedero disgusto. Pensò se fosse il caso di ordinare ai legionari di chiudere le porte e di avventarsi poi da ogni dove sulla folla con le armi snudate; ma ebbe paura di farlo di fronte a un dio. La furia della folla però, e la rabbia con cui si stringeva attorno al dio, gli diedero la certezza che la gente avrebbe preteso da lui la morte del dio, tanto che volse istintivamente lo sguardo verso l’incatenato, benché avesse una paura immensa d’incontrarne una seconda volta gli occhi. Quel che vide tuttavia lo indusse a soffermare lo sguardo. Il dio non era grande di statura, e il suo aspetto era quello d’un uomo qualunque. Aveva le mani legate davanti, gonfie e bluastre. Gli abiti gli pendevano laceri e sporchi sul corpo, tanto che in molti punti s’intravvedeva la pelle percorsa da rosse striature. Ritenne quell’aspetto del dio il più crudele fra quanti potevano ingannare gli uomini, solo un odio inimmaginabile poteva averlo spinto a presentarsi in quella volgare mascherata. Ma si spaventò soprattutto quando il dio evitò di guardarlo di nuovo; pur avendo paura di quello sguardo, il pensiero che il dio lo disprezzasse gli era insopportabile. Il dio teneva il capo chino, anche le sue guance erano pallide e cadenti, e una grande tristezza pareva essersi diffusa sul suo volto. Gli occhi erano rivolti in se stessi, come se tutto fosse molto distante da lui: la folla che lo accerchiava, i soldati armati, e colui che gli sedeva innanzi sulla scranno di giudice anche se era l’unico ad aver capito la verità. Desiderò che il tempo tornasse indietro e che il dio lo guardasse come nel momento in cui s’erano aperte le porte, perché allora si sarebbe inginocchiato davanti a lui, gridando e pregando a gran voce, per chiamarlo dio di fronte ai legionari e al popolo tutto. Quando però vide che il dio non si occupava più di lui, serrò convulsamente le mani come per stracciare il rotolo poggiato sulle sue ginocchia. Ora sapeva che il dio era venuto per ucciderlo. Così si accasciò sul trono, il volto coperto di sudore freddo, mentre il rotolo gli scivolava dalle mani verso i piedi del dio. Quando vide la faccia del legato che si chinava su di lui, annoiata e stanca, impartì l’ordine a bassa voce, come se si trattasse di qualcosa d’irrilevante, poi si volse verso il prefetto appena rientrato dalla Galilea, lo chiamò con un cenno accanto a sé, mentre l’ordine era ripetuto dal legato con voce alta e indifferente; quindi, mentre il prefetto stava ancora facendo la sua relazione, scrutò la folla che si disperdeva mormorando attraverso le porte spalancate sullo sfondo; ma non scorse più il dio, la gente lo teneva nascosto come un suo segreto.

Ora le porte erano di nuovo chiuse e la sala davanti a lui deserta. Fece segno perché tutti lo lasciassero. Si appoggiò all’indietro e guardò giù, verso il rotolo che toccava leggermente col piede. Le mani stringevano calme le estremità dei braccioli mentre ascoltava col capo leggermente chino l’allontanarsi degli ufficiali; solo uno schiavo rimase. Poi diede un’occhiata alla sala, diffidente, come per scoprire le tracce del dio. Vide le pareti imponenti, uniformi, prive di bellezza, le bronzee superfici delle porte attraverso le quali la folla aveva portato via il dio, dipinte di strani ornamenti d’un vivido rosso. Dentro di lui c’era una grande calma che non aveva mai conosciuto prima. La paura lo paralizzava. Era ovunque, in lui e nel peso greve delle mura. Si alzò e passò accanto allo schiavo. Lasciò la torre lungo uno stretto corridoio e uscì nella corte. Sulle torrette e sulle alte mura alcuni legionari spiccavano contro il cielo d’un azzurro profondo. La pavimentazione di pietra brillava al sole. La luce lo avvolse e gli parve di muoversi in mezzo al fuoco  quando attraversò il cortile. Avanzò verso l’edificio principale che gli si levava innanzi come un dado goffo e abbagliante, ed entrò nell’atrio. Poi salì la scala che era di fronte all’ingresso e conduceva su, in un intrico di piccole stanze dalle pareti forate e dalle finestre molto elevate, strette e munite di sbarre, attraverso le quali fluiva solo debolmente la luce del pomeriggio. Le pareti erano nude, perché soggiornava raramente nella capitale di quell’odiato paese; però il pavimento era coperto di tappeti e cuscini. Nella stanza più grande lo aspettava il legato, già sdraiato. Si sedette accanto all’ufficiale, ma non toccò cibo e bevve solo un po’ di vino. Rispose con calma al legato e lo ascoltò parlare. Dentro di sé era ansioso di portare il discorso sul dio; ma poi esitò a farlo, perché non si fidava del legato, e lo guardava con sospetto. Cominciò a fare certe domande sull’esercito, e l’ufficiale ne fu disorientato; perché inaspettatamente la conversazione aveva assunto una piega concreta. Poté così ricostruire con estrema chiarezza nell’animo suo, come in un nascondiglio, ogni attimo dell’incontro col dio. Non era molto convinto che Erode trattenesse presso di sé il dio, intuendo di essere il solo destinato a sapere la verità. Temeva che il dio tornasse da lui, perché era venuto da lui e da nessun altro, eppure provava un desiderio intenso e strano che quell’attimo si fosse già avverato. L’abisso fra uomo e dio era stato infinito, e ora che il dio aveva varcato quell’abisso e si era fatto uomo, lui doveva necessariamente perire nell’impatto col dio, sfracellarsi contro di lui, come uno scaraventato contro uno scoglio dall’onda.
                Quando venne dunque il messo ad annunciargli che il dio, mandato da Erode, era giunto di nuovo davanti alla fortezza, incatenato, accompagnato dal chiasso della folla, ordinò che il dio fosse trasferito all’interno della fortezza, per dividerlo dalla folla, e quindi attese per tutto il tempo necessario ai legionari per condurre il dio nell’atrio dell’edificio principale. Poi si alzò e passò accanto al busto dell’imperatore, vicino alla porta, come d’abitudine soffermando lo sguardo sul marmo che si levava muto dinnanzi a lui, testa estranea e incoronata che si perdeva nell’oscurità. Percorse il lungo corridoio che conduceva alla scala tra due ali di legionari. Le figure risaltavano nell’ombra, nette al fuoco delle fiaccole che lì erano già accese, così che una luce tremula andava a posarsi sugli uomini, infrangendosi in sempre nuove ondate gialle e rosse sugli scudi rivestiti di metallo. Avanzò verso l’uscita che gli si offriva all’occhio come un rettangolo chiaro, da dove avrebbe potuto guardare giù nell’atrio, e di nuovo, nella memoria, rivide lo sguardo del dio. Parve esitare per un attimo; poi però superò risoluto quei pochi passi scostando violentemente le lance dei legionari, e uscì nello spazio luminoso dell’atrio. Guardò in basso, con un rapido moto del capo. Vide con orrore spegnersi negli occhi dei legionari lampi di scherno. Il dio stava immobile fra di loro. Le sue mani erano ancora legate, ma dalle spalle gli pendeva ora un mantello bianco, sudicio di feci umane. Vide l’irrisione del dio, e biasimò se stesso per averlo mandato da Erode. Ed ebbe così conferma che tutto quello che aveva intrapreso per la sua salvezza si volgeva alla sua perdizione, e percorse a ritroso il tragitto fra i legionari, senza sul momento occuparsi oltre del dio.

                Aveva ordinato che la fustigazione del dio avvenisse durante in terzo turno della guardia di notte, e si recò in anticipo sul luogo designato, fra l’edificio principale e la torre più vicina. Era stata una giornata calda, sotto un sole rotolato per il cielo senza nuvole e sul cortile sotteso; ora su tutto posava però la notte, ancora senza luna, forata solo dal fuoco pungente delle stelle, e il mondo pareva ridotto alle superfici spente di quelle mura e di quelle torri conficcate nel cielo come pali, uno spazio di profondità smisurata eppure misurabile con un fermo e preciso numero di passi. Raggiunse il palo che aveva destinato al dio e si levava ritto nella notte dal terreno, appena rischiarato dalla fiaccola sorretta da uno schiavo. Quando strinse il legno fra le mani, avvertì chiodi e schegge che gli scalfirono la pelle fino a farlo sanguinare. Poi si diresse al muro dell’edificio principale dove, accanto a una piccola porta secondaria, c’era un sedile e, appena seduto, intimò allo schiavo di spegnere la fiaccola, poiché gli pareva già d’udire i passi dei legionari; però passò ancora qualche tempo prima che le voci risuonassero fino a lì. Sul muro del castello che gli stava davanti di sbieco divenne visibile un fioco riverbero di fiaccole lontane, e gli si accentuò dinnanzi agli occhi spalancati, finché le mura furono vivamente illuminate e si delinearono nettamente gli enormi massi squadrati. Il palo risaltava nitidissimo sul muro della fortezza, l’ombra correva diritta come una freccia sul terreno per poi spezzarsi repentinamente contro il muro e spingersi in alto lungo la parete nell’infinito della notte, e intanto oscillava anche, avanti e indietro all’avvicinarsi delle fiaccole come la sfera impazzita d’un mostruoso orologio. Sulla superficie rischiarata del terreno, una massa scura avanzò verso il palo e dilagò per ogni dove, s’addensò nello spazio e infine, fitta mescolanza di teste informi, pennacchi d’elmo vivacemente vibranti e mani serrate, apparvero ai suoi occhi i legionari: un assembramento confuso d’armi e corpi, e fra di loro alcuni reggevano alte nella notte le fiaccole; risuonavano anche grida e risate perché nessuno sapeva della presenza di colui che stava immobile sul sedile senza quasi avvertire il fiato pesante dello schiavo alle sue spalle. In mezzo ai legionari, invisibile a lui, doveva però incedere il dio, perché in quel punto tutto s’addensava in un vortice; il suo occhio attento vide calare lì con violenza le impugnature delle spade e i pugni, e il corteo ogni tanto bloccarsi perché tutti si pigiavano e colpivano verso l’interno, quindi indietreggiavano fra risate stridule; poi però la folla riprese ad avvicinarsi rapida al palo, lo raggiunse, lo circondò: ma erano troppo numerosi per riuscire a scorgere il dio. Un legionario s’arrampicò sul palo e fissò fiaccole in cerchio attorno alla cima, poi gettò giù la corda e saltò in mezzo alla folla che subito, con un forte grido, si fece sotto, attorno al palo, ammassandosi terribile, illuminata dalle fiaccole che la sovrastavano in modo così vivido e fantastico che le ombre si protesero da ogni parte del mucchio umano, come i petali d’uno strano e mostruoso fiore improvvisamente dischiuso. Dopo però la folla si disperse e di frantumò in singoli individui che uscirono rapidi dalla luce della corona di fuoco, per distendersi al buio, alcuni così vicini che i suoi piedi quasi li toccavano. Egli tuttavia rimase seduto immobile e senza avvedersene, perché tremendo si mostrava ora il dio ai suoi occhi. Era nudo e le mani semisollevate erano avvolte dalla fune che pendeva dal palo, tesa di sbieco dal loro stesso peso. Il dio era solo, accanto al palo, leggermente discosto, sotto il cielo d’un buio profondo eppure infuocato, perfettamente visibile alla luce che lo avvolgeva come una ruota, avvinto in quel cerchio, immagine del potere di colui che, immobile nell’oscurità della porta laterale, stava seduto di fronte al dio. L’ombra del dio si protese tuttavia dal cerchio di luce delle fiaccole fino in mezzo al suo cuore, e tutto quello che a questo punto accadde si svolse fra lui e il dio; perché tutte le cose, i legionari e le fiaccole accese, il palo levato nel cielo, i severi massi squadrati delle mura, la dura superficie del terreno, il respiro lieve dello schiavo e le masse infuocate delle costellazioni erano lì soltanto perché lì c’erano il dio e lui e nient’altro, ed erano lì perché fra il dio e l’uomo non esiste altra intesa che la morte, e altra pietà che la maledizione, altro amore che l’odio. E appena ebbe pensato questo, nella notte che li avvolgeva, alcuni legionari, pochi, si alzarono e avanzarono da ogni parte, a busto nudo, verso il dio: gli uni vivamente illuminati, gli altri visibili solo come silhouette. Gli scudisci si mossero nelle loro mani come serpi, avvolsero leggeri le braccia poderose, scivolarono poi a brevi sussulti sul terreno, come animali crudeli dalle informi teste di piombo. Gli uomini girarono intorno al dio come in una danza, toccando come per gioco il suo corpo con le fruste sottili, per poi colpirlo improvvisamente con rabbia furiosa, e le teste di piombo si conficcavano a fondo nel corpo del dio, facendo sprizzare il sangue dalla carne, ed egli, tranquillamente seduto, fu invaso da un tormento infinito poiché s’era aspettato, dentro di sé, che le fruste slittassero sul dio come sul marmo. Ora invece vide il dio afflosciarsi colpito dalle tremende scudisciate dei legionari, i piedi strascicanti sul terreno perché le mani erano trattenute alte dalla fune e il corpo scaraventato attorno, in cerchio, dalla violenza delle frustate, centrato sempre di nuovo dai colpi sibilanti dei legionari che danzavano seminudi attorno al dio, per avventarsi su di lui da ogni lato, sommersi dalla luce oscillante delle fiaccole che proiettavano spettrali le ombre sul pavimento di pietra, lucido come uno specchio, come un sottile strato di ghiaccio teso su un mare senza fondo. Poi però, quando il corpo penzolò senza vita, si scostarono dal dio con facce impietrite; perché stanchi erano gli scudisci nelle loro mani, e lentamente gli uomini scomparvero nella notte, e lui rimase solo di fronte al dio, mentre si disperdeva disordinata l’eco dei passi dei legionari. Le fiaccole ardevano più quiete ora; ma erano prossime a spegnersi e la pece gocciolava sul corpo sanguinante, attorcigliato attorno al legno del palo. Allora si levò dal sedile e si avvicinò lentamente al dio. Gli si avvicinò tanto da toccarlo; e vide anche il corpo nudo del dio con la massima chiarezza. Non era bello, quel corpo; perché la pelle era spenta e lacera; si scorgevano anche ferite profonde, alcune in suppurazione, e tutto era coperto di sangue. Non vide però il volto del dio, nascosto dalle braccia. Ma quando vide quel corpo, stravolto e brutto come ogni corpo umano dopo la tortura, e quando tuttavia riconobbe in ogni ferita e in ogni escoriazione della carne il dio, s’avviò gemendo nella notte, mentre dietro di lui le fiaccole si spegnevano sul dio.

                Rannicchiato come un animale spaventato, giacque da qualche parte senza sonno, fra le pareti nude delle sue stanze su cui si rispecchiava la fiamma del lume a olio. Viveva immerso nell’orrore del suo animo, solo fra gli uomini e impenetrabile per coloro che gli passavano davanti agli occhi senza smuoverlo, come uno che nelle notti d’inverno veda gente incedere spettrale alla luce della luna. Le sue mani scorrevano sulle trame dei tappeti, s’artigliavano ai cuscini o afferravano tremanti il calice con il vino. Succedeva anche che il suo sguardo scivolasse, sbieco e strano, verso il volto dell’imperatore, bianco nel buio, con le labbra atteggiate al sorriso, irreali, come morti che sorridano fra le tombe, e incerto nella penombra. Poi guardò muto lo schiavo, che si sottrasse a quello sguardo in cui fremeva spettrale un’insolita invidia. All’alba tuttavia, al primo raggio del sole, fece venire i suonatori di flauto e la melodia entrò monotona nelle sue orecchie; ma nulla poteva scuoterlo, perché la visione del dio non aveva abbandonato li suo spirito.

                Tentò questo punto di scaricare la sua responsabilità sulla folla, visto che non era riuscito a costringere il dio ad agire. Designò il luogo per il suo progetto, la scalinata che conduceva al grande portale dell’edificio principale, e il momento, il mattino, seguente al giorno in cui aveva per la prima volta incontrato il dio, e tutto si svolse poi in pochi giorni. La scalinata e il portale principale erano all’ombra che si estendeva come un nastro sottile lungo l’edificio principale su una piccola parte del piazzale e della folla. La gente, che durante la notte aveva cantato inni di scherno al dio, era apparsa già presto davanti alle porte della fortezza e s’era riversata selvaggiamente gridando all’interno del cortile di cui riempiva ora le vaste superfici, incurante d’essere alla mercé dei legionari che circondavano il popolo con le armi snudate. Perciò, quando ebbe raggiunto dalle sue stanze l’atrio, vide attraverso la porta spalancata il dio e Barabba già davanti alla folla, un po’ soprelevati, come aveva ordinato; uscì tranquillo dalla penombra della sala, e apparve d’improvviso, così imponente nel suo mantello bianco, fra il dio e il malvivente, che la plebe impietrì sotto il suo sguardo. Guardò con indifferenza la gente accalcata all’infinito davanti a lui, con teste in cui gli occhi rossi erano come chiodi arrugginiti, e le nere lingue posavano pesanti e informi fra denti gialli. Pareva che la folla avesse un volto solo, ed era il volto di tutti gli uomini contemporaneamente, una faccia mostruosa, minacciosa, da cui fluiva il silenzio terribile che s’era posato su tutte le cose, una faccia ora al cospetto di dio e del malvivente, della verità e della violenza, reclamante, con un unico grido acuto, la morte del dio. E siccome il dio tollerava che tutto questo avvenisse, ordinò a uno schiavo di portare una ciotola d’acqua in cui si lavò le mani in segno d’innocenza, senza badare oltre alla folla infuriata: quando però si voltò e vide il viso muto del dio, seppe che la folla non poteva togliergli il suo peso, poiché egli soltanto conosceva la verità. Fu costretto così a commettere sul dio una crudeltà dopo l’altra, perché sapeva la verità senza capirla, e nascose il viso fra le mani ancora gocciolanti dell’acqua della ciotola.

                Da quel momento gli parve di muoversi come un morto fra i morti. Verificò i preparativi della crocefissione e guardò i legionari che irridevano il dio. Stette dinnanzi al dio con occhi tranquilli, fissi con indifferenza su di lui, e consentì anche che gli fosse messa in capo una corona di spine. Poi si fece mostrare la croce e ordinò che si rizzasse davanti a lui quel legno grezzo, quindi passò con cura le mani sulla corteccia. Quand’ebbe scelto i legionari, seguì il corteo con lo sguardo finché vide sparire nella porta della fortezza la gente che trascinava con sé il dio, schiacciato sotto l’enorme croce, barcollante in mezzo alla truppa. Si voltò senza far caso al figlio d’uno schiavo che correva piangendo sommessamente per il cortile, in direzione del punto in cui il dio era scomparso nell’arco della porta. Tornò nelle sue stanze e si fece preparare un pasto. Si distese immobile accanto al tavolo e ascoltò con distacco il motivo suonato da musicanti della Lidia che soffiavano a gote gonfie, mentre al di là delle spesse mura che racchiudevano le sue stanze si fece notte. Il sole si oscurò. Il cielo divenne pietra, e la gente nella sala si spaventò. I musicanti staccarono i flauti dalle labbra pallide e fissarono con grandi occhi tondi le finestre munite di sbarre. In mezzo al cielo il sole morto senza luce stava immobile su una superficie spenta, come una palla gigantesca coperta di buchi profondi. Seguì anche un terremoto che gettò tutto sottosopra, e la gente si premette urlando sulla terra. Egli sapeva che in quel momento il dio era sceso dalla croce compiendo miracoli terribili, per portare a termine finalmente la sua vendetta. Si alzò e uscì. Fece venire il suo cavallo e s’avviò galoppando con poco seguito. I cavalli erano ombrosi, come in preda a una grande paura. Le strade della città erano vuote, calate in una terra devastata, su cui gravava un cielo senza più giorno né notte. Le facce degli accompagnatori erano pallide e gli elmi come gusci di lumache su teste calve in cui erano infissi occhi senza luce. Si spaventò quando scorse le sue mani; perché erano come ragni sconosciuti, stretti attorno alle briglie del cavallo. Cavalcarono fuori dalla città verso la collina delle croci. Passarono accanto a gente rannicchiata lungo la strada, con le ginocchia raggruppate, che pronunciava a voce alta e rapida parole senza senso. Alcuni si gettarono davanti ai cavalli, ma senza gridare, e giacquero poi calpestati dagli zoccoli. Le palme erano spezzate a metà e laceri gli ulivi. Dalle tombe nelle rupi, spalancate, pendevano cadaveri e mani ossute si levavano come bandiere nell’aria lattiginosa. Schiere di lebbrosi avanzavano barcollando nei mantelli svolazzanti come neri uccelli, e le loro voci passavano come fischi striduli. Il sentiero saliva alla rupe. Era coperto dai cadaveri sfracellati di coloro che si erano gettati dalle rocce. I cavalli si fecero più inquieti man mano che si avvicinavano al posto dove erano state erette le croci, al centro quella del dio, forse svettante, vuota e nuda verso il cielo, alla quale stava forse appoggiato il dio in persona, nudo e bello, ridendo a gran voce, pronto a dilaniare colui che si stava avvicinando a cavallo. Il sole era ancora spento e immobile allo zenit, come se il tempo non esistesse più. Anche l’oscurità si era accentuata, ed egli andò quasi a sbattere contro la croce dritta davanti a lui nella notte, e solo a fatica constatò che quella era la croce del dio. Stava già per allontanarsi, per cercare ancora; come però si levò a oriente, gigantesca, una verde cometa, vide che quella croce non era vuota come aveva creduto. Furono i piedi che scorse per primi. Erano forati da un chiodo, e mentre lo sguardo scivolava verso l’alto, il corpo s’inclinò pesante, a braccia spalancate, furiosamente protese nel cielo, e proprio sopra la sua faccia pendeva il volto morto del dio.

                Quando però, tre giorni dopo, venne di mattino presto il messo a comunicargli che il dio, nella notte, aveva lasciato la sua tomba, trovata vuota, vi si recò subito a cavallo e guardò a lungo nella cavità. Era vuota, e la pesante pietra che l’aveva coperta giaceva spezzata a terra. Si girò lentamente. Ma alle sue spalle c’era uno schiavo, e quello vide così la faccia di Pilato: immensa dinnanzi a lui come un paesaggio di morte, pallida alla prima luce del mattino, e gli occhi, spalancati, erano freddi.