Qualche volta succede che qualcuno ti porta un libro.
Sei lì indifeso, e non te l'aspetteresti, ma lui te lo consegna in mano.
Ti parla della sua personale esperienza con quella storia, ma tu non ci fai tanto caso, perché tieni il libro tra le mani, e quel peso leggero un po' ti spaventa. Pensi "e se non mi piace?", "non ho tempo, adesso, con tutto quello che ho da fare", pensi "devo stare attento a non perderlo".
Poi però, certe volte, quando sei a casa ti viene voglia di aprirlo. Così.
Inizi a leggerlo, e non pensi più a niente.
Le righe scivolano una dopo l'altra, e qualcosa si sblocca dentro.
Con questa storia mi è successo così.
E spero che, magari, possa accadere anche a qualcuno tra voi.
Eccovi
Siddharta, Hermann Hesse.
"Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva
il Buddha, il Perfetto, e nel quale rimaneva Govinda, allora egli sentì che in
questo boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e si
separava da lui. Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli venne
riflettendo mentre s’allontanava a lento passo. Profondamente vi pensò, come
attraverso un’acqua profonda si lasciò cadere fino al fondo di questa
sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere le cause ultime,
questo appunto è pensare - così gli pareva - e solo per questa via le
sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario si fanno
essenziali e cominciano a irradiare ciò che in esse è contenuto.
Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che
non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva
abbandonato, così come il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia pelle,
che una cosa non era più presente in lui, che l’aveva accompagnato durante
tutta la sua giovinezza, e gli era appartenuta: il desiderio di avere maestri e
di conoscere dottrine. L’ultimo maestro che era apparso sulla sua strada, il
sommo e sapientissimo maestro, il più santo di tutti, il Buddha, anche questo
egli l’aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva potuto
accogliere la sua dottrina.
Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva
frattanto: «Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e
dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a
insegnarti?». Ed egli trovò: «L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e
l’essenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma
non potevo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o
nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto occupato i
miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch’io vivo, d’essere uno,
distinto e separato da tutti gli altri, d’essere Siddharta!»
Colpito da questo pensiero s’arrestò improvvisamente nel
suo lento cammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un
altro, che suonava: «Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia
rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale,
una sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L’Atman
cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per
trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman,
la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me
stesso».
Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno, un
sorriso gli illuminò il volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da
lunghi sogni, lo percorse fino alla punta dei piedi. E appena si rimise in
cammino, correva in fretta, come un uomo che sa quel che ha da fare.
«Oh!» pensava respirando profondamente «ora Siddharta non
me lo voglio più lasciar scappare! Basta! cominciare il pensiero e la mia vita
con l’Atman e col dolore del mondo! Basta! uccidermi e smembrarmi, per scoprire
un segreto dietro le rovine! Non sarà più lo Yoga-Veda a istruirmi, né l’Atharva-Veda,
né gli asceti, né alcuna dottrina. Dal mio stesso Io voglio andare a scuola,
voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero
che ha nome Siddharta».
Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il
mondo. Bello era il mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era
azzurro, là giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i
fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna, tutto bello, tutto enigmatico e
magico, e in mezzo v’era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che
conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e bosco
penetrava per la prima volta attraverso la vista in Siddharta, non era più l’incantesimo
di Mara, non era più il velo di Maya, non era più insensata e accidentale
molteplicità del mondo delle apparenze, spregevole agli occhi del Brahmino,
che, tutto dedito ai suoi profondi pensieri, scarta la molteplicità e solo dell’unità
va in cerca. L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume, e anche se nell’azzurro
e nel fiume vivevan nascosti come in Siddharta l’uno e il divino, tale era
appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là
cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose erano non in
qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.
«Come sono stato sordo e ottuso!» pensava, e camminava
intanto rapidamente. «Quand’uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il
senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente
e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per
lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio
proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore di un significato
congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho
chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No,
tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato nella realtà e oggi
nasco per la prima volta».
Mentre rivolgeva tali pensieri, si fermò tuttavia
improvvisamente, come se un serpente fosse apparso sulla strada davanti ai suoi
piedi. Poiché improvvisamente anche questo gli si era rivelato: egli, che nella
realtà si trovava come un risvegliato o come un nuovo nato, doveva ricominciare
interamente la sua vita. Ancora in quello stesso mattino, quando aveva lasciato
Jetavana, il boschetto di quel Sublime, era già in atto di ridestarsi, già era
sulla strada che riconduce a se stesso, era stata sua intenzione e gli era
apparso perfettamente ovvio e naturale, dopo gli anni del suo noviziato
ascetico, far ritorno a casa sua, da suo padre. Ma ora per la prima volta,
proprio in quell’istante in cui egli s’era arrestato come se un serpente
giacesse sulla sua strada, s’era destata in lui anche questa idea: «Io non sono
più quel che ero, non sono più eremita, non sono più prete, non sono più Brahmino.
Che dunque vado a fare a casa di mio padre? Studiare? Offrire sacrifici?
Praticare la concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si trova
più sul mio cammino». Immobile restò Siddharta, e per un attimo, la durata di
un respiro, un gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì gelare nel petto
come una povera bestiola, un uccello o un leprotto, quando s’accorse quanto
fosse solo. Ora lo sentiva. Sempre, finora, anche nella più profonda
concentrazione, egli era rimasto il figlio di suo padre, era stato Brahmino, d’alto
ceto, un sacerdote. Adesso non era più che Siddharta, il risvegliato, e nient’altro.
Trasse un profondo sospiro, e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì.
Nessuno era così solo come lui. Non v’era un nobile che non appartenesse all’ambiente
dei nobili, non v’era un manovale che non appartenesse all’ambiente dei
manovali; e fra i loro pari tutti trovano ricetto, ne condividevano la vita, ne
parlavano la lingua. Non v’era un Brahmino che non fosse annoverato tra i suoi
colleghi e non vivesse con loro, non v’era un eremita che non potesse trovare
ricetto nella società dei Samana, e anche il più sperduto solitario della
foresta non era uno e solo, anche lui era circondato da aderenti, anche lui
apparteneva a una categoria che gli faceva da patria. Govinda s’era fatto
monaco, e mille monaci erano suoi fratelli, portavano un abito come il suo,
condividevano la sua fede, parlavano il suo linguaggio. Ma lui, Siddharta, a
quale comunità apparteneva? Di chi condivideva la vita? Di chi avrebbe parlato
il linguaggio?
Da
questo momento in cui il mondo circostante parve disciogliersi intorno a lui,
in cui egli rimase abbandonato come in cielo una stella solitaria, da questo
momento di gelo e di sgomento Siddharta emerse, più di prima sicuro del proprio
IO, vigorosamente raccolto. Lo sentiva: questo era stato l’ultimo brivido del
risveglio, l’ultimo spasimo del nascimento. E tosto riprese il suo cammino,
mosse il passo rapido e impaziente, non più verso casa, non più verso il padre,
non più indietro."