domenica 30 gennaio 2011

Dammi una rosa rossa

Un racconto ferocemente delicato.
Non aggiungerò parole superflue.
Vi lascerò assistere ammutoliti allo spettacolo chiamato Oscar Wilde, L'usignolo e la rosa.
Munitevi di coscienza, silenzio e cuore.
E cantate.


 “Ha detto che avrebbe ballato con me se le avessi portato delle rose rosse,” gridò il giovane Studente, “ma in tutto il mio giardino non c'è una sola rosa rossa!”
Dal suo nido nel leccio l'Usignolo lo intese e si sporse a occhieggiare tra le foglie e si meravigliò.
“Non una sola rosa rossa in tutto il mio giardino!” ripeté, e i suoi bellissimi occhi si riempirono di lagrime. “Ah, da quali piccole cose dipende la felicità! Io ho letto tutto ciò che i saggi hanno scritto, e tutti i segreti della Filosofia sono miei, e tuttavia la mia vita è rovinata per via di una rosa rossa!”
“Ecco finalmente un vero amante,” disse l'Usignolo. “Io ho cantato di lui ogni notte, pur non conoscendolo; ogni notte ho narrata la sua storia alle stelle e ora lo vedo. Ha i capelli scuri come il bocciolo del giacinto, e le sue labbra sono rosse come la rosa del suo desiderio, ma la passione ha reso il suo volto simile a pallido avorio, e il dolore ha posto il proprio suggello sulla sua fronte.”
“Il Principe dà un ballo, domani sera,” mormorò il giovane Studente, “e anche il mio amore vi sarà invitato. Se io le porterò una rosa rossa ella danzerà con me sino all'aurora. Se le porterò una rosa rossa la terrò tra le braccia, ed ella appoggerà il suo capo contro la mia spalla e la sua mano si stringerà tra le mie. Ma non vi sono rose rosse nel mio giardino, perciò io sederò in disparte ed ella mi disdegnerà; non si curerà di me e il mio cuore ne sarà spezzato.”
“Ecco in verità il vero amante,” disse l'Usignolo. “Ciò di cui io canto è ciò di cui egli soffre: quel che è gioia per me, per lui è dolore. Certo, l'amore è una cosa meravigliosa. Più preziosa degli smeraldi, più costosa delle fini opali. Perle e granate non possono comperarla, questa cosa stupenda, né è esposta in vendita sulla piazza del mercato. Non è possibile acquistarla dai mercanti, né può essere pesata sulla bilancia in cambio di oro.”
“I musicanti sederanno nella loro galleria,” riprese il giovane Studente, “e suoneranno sui loro strumenti a corda, e il mio amore danzerà al suono dell'arpa e del violino. Danzerà tanto leggera che i suoi piedi non toccheranno il pavimento, e i cortigiani nei loro gai vestiti le si affolleranno intorno. Ma con me non vorrà danzare, poiché non ho una rosa rossa da darle,” e si gettò bocconi sull'erba e si nascose il volto tra le mani e pianse.
“Perché piange?” domandò una Lucertolina Verde nel corrergli accanto con la coda all'aria.
“Già, perché piange?” disse una Farfalla che volteggiava lì attorno in caccia di un raggio di sole.
“Perché?” bisbigliò una Margheritina alla sua vicina con una dolce flebile voce.
“Piange per una rosa rossa,” disse l'Usignolo.
“Per una rosa rossa?” esclamarono, “che ridicolaggine!” e la Lucertolina, da cinica qual era, rise sfacciatamente.
Ma l'Usignolo comprendeva il segreto del dolore dello Studente, e se ne stette silenzioso nel leccio, rifiettendo al mistero dell'Amore.
A un tratto allargò le sue brune ali a volo, e si librò nell'aria. Come un'ombra attraversò il folto d'alberi e come un'ombra penetrò nel giardino.
Nel centro dell'aiuola cresceva un bellissimo roseto, e quando l'Usignolo lo vide volò verso di esso, e si posò su un ramo.
“Dammi una rosa rossa,” pregò , “e io ti canterò la mia più dolce canzone.”
Ma il roseto scosse il capo.
“Le mie rose sono bianche,” rispose, “bianche come la spuma del mare, e più bianche della neve che ricopre la cima della montagna. Ma va’ dal mio fratello che cresce intorno alla vecchia meridiana, e forse lui ti darà ciò che vuoi.”
Cosi l'Usignolo volò al roseto che cresceva intorno alla vecchia meridiana.
“Dammi una rosa rossa,” gridò, “e io ti canterò la mia più dolce canzone.”
Ma il roseto scosse il capo.
“Le mie rose sono gialle,” rispose, “gialle come i capelli dell'ondina che siede su un trono d'ambra, e più gialle dell'asfodelo che fiorisce nei campi prima che il mietitore giunga con la sua falce. Ma va’ dal mio fratello che cresce sotto la finestra dello Studente e forse lui ti darà ciò che vuoi.”
Cosi l'Usignolo volò al roseto che cresceva sotto la finestra dello Studente.
“Dammi una rosa rossa,” gridò, “e io ti canterò la mia più dolce canzone.”
Ma l'Albero scosse il capo.
“Le mie rose sono rosse,” rispose, “rosse come i piedi della colombe, e più rosse dei grandi ventagli di corallo che ondeggiano senza posa nella caverna oceanica. Ma l'inverno ha inaridite le mie vene, e il gelo ha intirizzito i miei germogli, e la tempesta ha spezzato i miei rami, e io non avrò più una sola rosa rossa, quest'anno.”
“Un'unica rosa rossa è tutto ciò che voglio,” gridò l'Usignolo, “una rosa rossa soltanto! Non vi è un mezzo per cui possa ottenerla?”
“Vi è un mezzo,” replicò l'Albero, “ma è cosi terribile che non oso dirtelo.”
“Dimmelo,” pregò l'Usignolo, “io non ho paura.”
“Se tu vuoi una rosa rossa,” disse l'Albero, “bisogna che tu la crei, traendola dalla musica al chiaro di luna, e colorarla con il sangue del tuo cuore. Tu devi cantare per me con il tuo petto contro una spina. Tutta notte devi cantare per me, e la spina ti trafiggerà il cuore, e il sangue della tua vita fluirà nelle mie vene, e diventerà mio.”
“La Morte è un grave prezzo con cui pagare una rosa rossa,” gridò l'Usignolo, “e la Vita è assai cara a tutti. È piacevole sedere nel verde bosco e contemplare il Sole nel suo cocchio d'oro, e la Luna nel suo cocchio di perle. Dolce è il profumo del biancospino, e dolci sono le campanule che si nascondono nella valle, e l'erica che fiorisce sulla collina. Tuttavia l'Amore è migliore della Vita, e che cos'è il cuore di un uccello paragonato al cuore di un uomo?”
Perciò allargò le brune ali a volo, e si librò nell'aria. Sfrecciò sopra il giardino come un'ombra, e come un'ombra penetrò nel folto d'alberi.
Il giovane Studente era ancora disteso nell'erba dove l'Usignolo lo aveva lasciato, e le lagrime non erano ancora asciutte nei suoi begli occhi.
“Sii felice,” gridò l'Usignolo, “sii felice: avrai la tua rosa rossa. Io la creerò traendola dalla mia musica sotto la luce della Luna, e l'invermiglierò con il sangue del mio cuore. In cambio io ti chiedo soltanto di essere un sincero amante, poiché l'Amore è più saggio della Filosofia, per quanto saggia questa sia, e più forte del Potere, per quanto questo sia forte. Colorato di fiamma è il suo corpo e le sue ali. Le sue labbra sono dolci come il miele e il suo respiro odora di incenso.”
Lo Studente alzò il capo dall'erba, e stette in ascolto, ma non poteva comprendere ciò che l'Usignolo gli diceva, poiché egli conosceva soltanto le cose che sono scritte nei libri.
Ma il Leccio comprese, e si rattristò, poiché voleva molto bene al piccolo Usignolo che aveva costruito il proprio nido tra i suoi rami.
“Cantami un'ultima canzone,” mormorò, “poiché mi sentirà solo quando tu te ne sarai andato.”
Così l'Usignolo cantò al Leccio, e la sua voce pareva acqua gorgogliante da una giara d'argento.
Quando ebbe terminato di cantare lo Studente si alzò e cavò di tasca un libriccino e una matita.
“Ha dello stile”, disse tra sé mentre si allontanava attraverso il folto d'alberi; “quello non glielo si può negare; ma avrà poi sentimento? Io temo di no: in realtà è come la maggior parte degli artisti: tutta forma e niente sincerità. Non si sacrificherebbe certamente per gli altri. Non pensa che alla musica, e tutti sanno che le arti sono egoiste. Tuttavia bisogna ammettere che nella sua voce ci sono delle note bellissime. Peccato però che non significhino nulla e non rechino alcun utile pratico!” Così dicendo salì nella sua stanza, e si buttò sul suo lettuccio a pensare al suo amore. Di lì a qualche momento si addormentò.
E quando la Luna sorse nei cieli l'Usignolo volò sul roseto e posò il suo petto contro la spina. Tutta notte cantò, col petto contro la spina, e la fredda Luna di cristallo si sporse ad ascoltare. Tutta notte cantò, e la spina gli si conficcava sempre più addentro nel petto, e il sangue della sua vita sgorgava via da lui.
Cantò dapprima della nascita dell'amore nel cuore di un giovane e di una fanciulla. E sul più alto ramo del roseto sbocciò una rosa meravigliosa, e un petalo si susseguiva all'altro, mentre a ogni canzone succedeva un'altra canzone. Pallida era dapprima come la foschia che indugia sul fiume, pallida come i piedi del mattino, e argentea come le ali dell'aurora. Come l'ombra di una rosa in uno specchio d'argento, come l'ombra di una rosa in una polla d'acqua, cosi era la rosa che sbocciava sul più alto ramo del roseto.
Ma l'Albero gridò all'Usignolo di premere più forte contro la spina. “Premi più forte, piccolo Usignolo,” gridò l'Albero, “altrimenti il Giorno verrà prima che la rosa sia finita.”
Così l'Usignolo premette più forte contro la spina, e più e più forte salì il suo canto, poiché cantava della nascita della passione nell'anima di un uomo e di una donna.
E un delicato rossore di rosa soffuse le foglie del fiore, simile al rossore che invermiglia il volto dello sposo quando bacia le labbra della sposa. Ma la spina non aveva ancora raggiunto il suo cuore, perciò il cuore della rosa restava bianco, poiché soltanto il sangue del cuore di un Usignolo può invermigliare il cuore di una rosa.
E l'Albero gridò all'Usignolo di premere più forte contro la spina. “Premi più forte, piccolo Usignolo,” gridò l'Albero, “altrimenti il Giorno verrà prima che la rosa sia finita.”
Cosi l'Usignolo premette più forte contro la spina, e la spina gli raggiunse il cuore, e una fitta acuta di dolore lo penetrò da parte a parte. Intenso, violento, era il dolore, e più e più appassionato e disperato divenne il suo canto, poiché cantava dell'amore che è reso perfetto dalla Morte, dell'Amore che non muore nella tomba.
E la rosa meravigliosa divenne vermiglia, come la rosa del cielo orientale. Vermiglia era la cintura dei petali, e vermiglio come un rubino era il cuore.
Ma la voce dell'Usignolo si fece più debole, e le sue minuscole ali incominciarono a sbattere, e una pellicola gli scese sugli occhi. Sempre più si affievolì il suo canto, ed egli senti qualcosa che gli attanagliava la gola.
Ma all'improvviso diede un ultimo scoppio di musica. La bianca Luna l'intese e dimenticando l'alba indugiò nel cielo. La rosa rossa l'intese, tutta tremando d'estasi, dischiuse i suoi petali alla fredda aria del mattino. Eco lo recò alla propria purpurea caverna tra le colline, e risvegliò dai loro sogni i pastori addormentati. Aleggiò tra le canne del fiume e queste ne portarono il messaggio al mare.
“Guarda, guarda!” gridò il roseto, “la rosa è finita, ora!” ma l'Usignolo non diede risposta, poiché giaceva morto tra l'erba alta, il cuore trafitto dalla spina.
A mezzogiorno lo Studente aprì la sua finestra e guardò fuori.
“Perbacco! Che straordinario colpo di fortuna!” esclamò. “Una rosa rossa! Non ne ho mai veduta una simile in vita mia! È talmente bella che certamente avrà un lungo nome latino,” e si sporse a coglierla.
Poi si mise il cappello e corse alla casa del Professore con la rosa in mano.
La figlia del Professore era seduta sulla soglia, intenta a dipanare da un arcolaio una matassa di seta turchina, mentre il suo cagnolino le stava accoccolato ai piedi.
“Hai detto che avresti ballato con me se ti avessi portata una rosa rossa,” disse lo Studente. “Eccoti la più rossa rosa del mondo. Tu la porterai questa notte vicino al tuo cuore e ti dirà tutto il mio amore.”
Ma la fanciulla aggrottò la fronte.
“Non credo andrà bene col mio vestito,” rispose; “d'altronde il nipote del Ciambellano mi ha mandato dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli costano molto di più dei fiori.”
“Parola d'onore, sei una bella ingrata,” replicò lo Studente furibondo, e scagliò la rosa in strada, in una buca dove la ruota di un carro la schiacciò.
“Ingrata!” esclamò la fanciulla. “Bene, ti dirò io una cosa, che tu sei un bel villano; e chi sei, dopotutto? Un semplice Studente! Ma come, se non hai nemmeno fibbie d'argento alle scarpe come le ha invece il nipote del Ciambellano!” E si alzò per rientrare in casa.
“Che cosa stupida è l'Amore!” pensò lo Studente allontanandosi. “Non vale neanche la metà della Logica, poiché non dimostra nulla, parla sempre di cose che non si avverano e ti fa credere cose che non sono esatte. In fondo è totalmente sprovvisto di praticità, e poiché in un'epoca come la nostra la praticità è tutto, me ne ritornerò alla Filosofia e studierò la Metafisica.”
Perciò andò nella sua stanza, tirò giù dallo scaffale un volumone polveroso e cominciò a leggere.
E questo è Vinicio Capossela, Con una rosa, canzone tratta proprio da qui.
Ora ballate.







mercoledì 26 gennaio 2011

Nuvole...

Come in un film.
Sono entrata in libreria con il presentimento di un volume in più sul comodino.
Ho passato mani sulle copertine, infilato gli occhi tra le pagine, ascoltato i sussulti del mio cuore.
Quando ormai stavo per andarmene, con tra le dita una storia che, semplicemente, mi incuriosiva, ho puntato gli occhi su Il libro dell'inquietudine, di Fernando Pessoa.
E non c'è stato altro da dire.
Vi porto uno di pezzi che mi ha fatta vibrare, stamattina, tra i sussulti del treno e il vociare indistinto che è diventato silenzio.
Immergetevi, oramai non c'è cosa migliore che possiate fare.



Nuvole... Oggi sono consapevole del cielo, poiché ci sono giorni in cui non lo guardo ma solo lo sento, vivendo nella città senza vivere nella natura in cui la città è inclusa. Nuvole... Sono loro oggi la principale realtà, e mi preoccupano come se il velarsi del cielo fosse uno dei grandi pericoli del mio destino. Nuvole... Corrono dall’imboccatura del fiume verso il Castello; da Occidente verso Oriente, in un tumultuare sparso e scarno, a volte bianche se vanno stracciate all’avanguardia di chissà che cosa; altre volte mezze nere, se lente, tardano ad essere spazzate via dal vento sibilante; infine nere di un bianco sporco se, quasi volessero restare, oscurano più col movimento che con l’ombra i falsi punti di fuga che le vie aprono fra le linee chiuse dei caseggiati.
Nuvole... Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l’intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere, la media astratta e carnale fra cose che non sono niente, più il niente di me stesso. Nuvole... Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio! Nuvole... Continuano a passare, alcune così enormi (poiché le case non lasciano misurare la loro esatta dimensione) che paiono occupare il cielo intero; altre di incerte dimensioni, come se fossero due che si sono accoppiate o una sola che si sta rompendo in due, a casaccio, nell’aria alta contro il cielo stanco; altre ancora piccole, simili a giocattoli di forme poderose, palle irregolari di un gioco assurdo, da parte, in un grande isolamento, fredde.
Nuvole... Mi interrogo e mi disconosco. Non ho mai fatto niente di utile né farò niente di giustificabile. Quella parte della mia vita che non ho dissipato a interpretare confusamente nessuna cosa, l’ho spesa a dedicare versi prosastici alle intrasmissibili sensazioni con le quali rendo il mio universo sconosciuto. Sono stanco di me oggettivamente e soggettivamente. Sono stanco di tutto e del tutto di tutto. Nuvole... Esse sono tutto, crolli dell’altezza, uniche cose oggi reali fra la nulla terra e il cielo inesistente; brandelli indescrivibili del tedio che loro attribuisco; nebbia condensata in minacce incolori; fiocchi di cotone sporco di un ospedale senza pareti. Nuvole... Sono come me, un passaggio sfigurato fra cielo e terra, in balìa di un impulso invisibile, temporalesche o silenziose, che rallegrano per la bianchezza o rattristano per l’oscurità, finzioni dell’intervallo e del discammino, lontane dal rumore della terra, lontane dal silenzio del cielo.
Nuvole... Continuano a passare, continuano ancora a passare, passeranno sempre continuamente, in una sfilza discontinua di matasse opache, come il prolungamento diffuso di un falso cielo disfatto.

mercoledì 19 gennaio 2011

Romanticheria

Ho prelevato per voi un pezzetto di Tutto torna, un libro di Giulia Carcasi.
Mi hanno colpito la schiettezza, la verità delle sue parole, il tentativo di riassumere in poche righe veloci un'intera storia d'amore.
Non c'è retorica. E questo rende tutto più umano, tutto più vicino alla vita vera, possibile.
Mi piace la semplicità del linguaggio che nasconde la grande capacità di sintesi, di focalizzare i punti principali, quelli che toccano dentro, quelli che fanno pensare "anche io".
Spero vi piacerà.
E poi, ogni tanto, abbiamo bisogno di un lieto fine...


Pisa, 18 gennaio 2009
Ci sediamo al tavolino di un bar, i piccioni tra i piedi.
“Non se ne vanno,” ripeto scalciando senza risultati.
“Perché si abituano,” dici senza scomporti e per la prima volta mi domando se l’abitudine è un valore.
Ti guardo, la tua testa sfiora la mia spalla, hai un neo piccolissimo sul labbro inferiore e mi sembra che nessuno possa vederlo. Ti guardo e non sono mai stato tanto vicino a una donna.
Te lo sto per chiedere in mezzo alla strada.
Te lo sto per chiedere e tu sorridi. “Coraggio,” dici.
Io non so se c’è in me una qualche voce segreta, ma se c’è tu sai ascoltarla.
“Mi vuoi sposare?”
Mi abbracci ed è l’unica risposta che non ho previsto.
Non abbracciarmi, dimmelo, Antonia, e chiaramente.
Niente scherzi stavolta, non dire “sì” come se fossi triste e non dire “no” ridendo.
Dimmelo e subito.
So che non sarà per tutta la vita come adesso.
Ti chiederò di abbassare il volume dello stereo perché sto lavorando e tu lo alzerai di una tacca a ogni mio “per favore”. Mi piacerà quando ti preoccupi e mi piacerà farti preoccupare per avere conferme. Userai una mia confidenza per ferirmi, mi pentirò di avertela fatta e ti odierò perché mi conosci. Quando mi accorgerò di aver sbagliato ti sarò più vicino: sarà il mio modo di chiedere scusa. Se avremo una figlia che verrà a svegliarci in piena notte, convinta che “ci sono i mostri”, io continuerò a dormire, tu le chiederai “dove?”. Di una tragedia farai una sciocchezza, di una sciocchezza una tragedia, faremo il gioco dell’abbandono senza saperlo fare, con valigie semivuote, tre mutande e una maglietta e la minaccia di non tornare più indietro: più faremo i forti più saremo deboli. So che non rilaverai l’insalata che al supermercato ti vendono come lavata, e che resterai nella vasca da bagno finché i polpastrelli non ti si arricciano.
So che non sarà per tutta la vita come adesso.
Ma so che se adesso non ti chiedo di sposarmi passerò tutta la vita a immaginare come sarebbe stato. Indietro non è più possibile.
Dimmelo, Antonia, e chiaramente: non si risponde con gli abbracci, si risponde con le parole.
È un sì?”
“Sì,” e ti chiedo di ripeterlo tante volte che non si può cancellare.